L’ANELLO
DELL’ADOLESCENTE
La foto mi colpì. Il messaggio, con conseguente
suggestione, ancora di più: “Che dite, posso
essere vostra amica?”. Una miscela esplosiva di
ammiccante ambiguità sconvolse la vulnerabilità
della mia senile ricerca di risvegli
passionali. Rosanna, una mora di 31 anni, dal
viso angelico e dagli occhi viola alla Liz
Taylor, aveva centrato il bersaglio, come sa
fare Facebook al femminile. La sua katana
affondò nel panetto di burro del mio
peterpanismo, di cui sono geloso conservatore.
Forse per reazione esorcistica all’inarrestabile
scansione degli anni, forse per il mai debellato
virus di fanciullismo che mi ha contagiato anche
nella maturità, fatto è che mi uscì di getto
rispondere al messaggio: “Che la natura sia
benedetta... Ci mancherebbe altro!”. A 55 anni,
sposato, con due figlie, come si poteva
verificare sul mio profilo senza segreti,
ostentatamente raffigurante me stesso, avevo
abboccato all’amo del social network. I messaggi
su FB di solito mi erano rituali. Questa volta
il cuore accese i suoi speciali e, non curandosi
minimamente delle flebili resistenze di
raziocinio, cominciò a scandire il conto alla
rovescia verso l’ora, il minuto, il secondo
della replica di Rosanna. Non ero aduso alla
frequenza dei contatti FB. Toh, un paio di
cliccate e fuga, a tempo perso, tanto per… Meno
di frequente, comunque, rispetto all’iniziale
coinvolgimento dal quale mi ero lasciato
sopraffare per burla e per provocazione di un
“amico”. Uno in carne e ossa, non virtuale. Ho
sempre aborrito internet e i suoi dintorni
finchè il mio lavoro di giornalista non me li ha
imposti. Un male necessario con il quale ho
imparato dapprima a convivere e, a mano a mano,
a districarmi persino discretamente. Chi lo
avrebbe mai detto? Tutto questo, però, è solo
pretestuosa e poco convinta giustificazione. La
verità è che, volente o nolente, cominciai a
collegarmi a FB con frequenza quasi ossessiva,
in attesa di Lei: in ufficio, a casa, ovunque
avessi a portata di mano uno straccio di
collegamento. Mi feci insegnare anche l’uso
dell’opzione internet del mio cellulare, prima
di allora un semplice aggeggio, nella mia
concezione, a mala pena utile per effettuare o
ricevere telefonate essenziali. Il pallino era
diventato uno solo, costante ed isolante: un
segnale di Rosanna. Spasimavo. Dodici ore,
un’eternità. Niente. Dodici ore e un quarto.
Niente. Dodici ore e mezza, ancora niente. Che
cavolo! Proprio vero che le donne, specie se
avvenenti consapevoli, sanno giocare fino al
cinismo con i rigurgiti di gioventù di un
qualsiasi maturo rimbambito. Dodici ore e
trentacinque. Eccolo! Un messaggio da facebook.
Cliccai con la stupefacente rapidità di un
esperto informatico quale non ero mai stato e mi
apparve Rosanna, lo sguardo più attraente di una
calamita e più luminoso che mai nell’identico
francobollo fotografico di dodici ore e
trentacinque minuti prima: “Che carino,
Pierfranco! Sei davvero simpaticissimo. Ciao.
Rosanna”. Irreale. Non aveva nemmeno tenuto
conto della mia senile sventatezza. Forse non ci
aveva fatto caso. “Perché avrebbe dovuto?”, mi
chiese un lontano parente ancora in se’ del mio
cervello. In fondo, era soltanto un approccio
innocente su FB. Ma sì, che importanza aveva?
Eravamo “amici” ora, Rosanna ed io. Per
l’esattezza, Rosanna era l’”amico/a” n. 358 di
FB. Chissà come mai, però, quel numero attivò
nelle mie orecchie la sigla di You Can Leave
Your Hat On di Joe Cocker in 9 Settimane
e 1/2, e mise in moto il meccanismo della
strategia di conquista che avrebbe dovuto
condurmi a stringere quella ragazza
irresistibile in un’alcova non importava dove
nascosta, purchè fosse al più presto. “Voglio,
devo incontrarla”, mi intimava la parte single e
malandrina di me. Verrà il momento
dell’avventura sfrenata, disinibita – pensai - e
il mio messaggio di rimando partì pressoché
incontrollato: “Grazie Rosanna. A presto”. Di
più non mi uscì di scriverle e proprio questa
involontaria stringatezza fu il segnale più
pericoloso. “A presto”, nel mio immaginario, era
un contenitore in codice di tutte le mie
sensazioni e di tutte le mie intenzioni. Ero
certo che Rosanna lo avrebbe decifrato
correttamente. Tredici ore e venti, un nuovo
messaggio. Rosanna aveva decodificato…”Pa’, mi
sento delusa e ferita cm figlia, anke x mamma.
Vi kredevo 1 sola cosa, nn pensavo ke tu facessi
qsto”. Una scudisciata in gergo sms o FB.
Vanessa, la mia primogenita, poco più giovane di
Rosanna, mi aveva intercettato, com’era logico
che fosse nel mondo aperto di FB al quale,
stupidità nella stupidità, ero iscritto insieme
alla mia prole. La scudisciata mi risvegliò dal
vagheggiamento e mi riportò alla realtà.
L’impietosa realtà. Dovevo una spiegazione a
Vanessa, e di rimbalzo alla sorella che non
aveva avuto lo stesso ardito coraggio di
sbattermi in faccia la sua disapprovazione.
Vanessa, del resto, era tosta. Il tipo o dentro
o fuori, o bianco o nero. Un Capricorno. Dovevo
una spiegazione ma senza abbassare la testa, con
una fermezza della serie “ma come ti permetti di
giudicare dalle apparenze?”. Dapprima mi limitai
a parare il colpo: “Se ho dato l’impressione di
fare il cascamorto con Rosanna chiedo scusa, non
era nelle mie intenzioni. Mi conosci bene, per
carattere sono scanzonato, ironico, aperto. Per
questo ho un buon rapporto con la gente”. Mi
venne, però, di sferrare un montante pesante,
forse troppo, quello che avevo in mente in
partenza: “In ogni caso, non ti permetto di
giudicarmi. Credi che se avessi voluto
allacciare una tresca con Rosanna lo avrei fatto
su FB? E io ti ho forse rimproverato, da padre,
quando ho letto messaggi tuoi non proprio
innocenti? Ciao. Pa’”. Avevo vinto per kot.
Vanessa, rialzatasi a stento dal tappeto, mi
chiese scusa per avere dubitato delle mie reali
intenzioni, il che accrebbe il mio disagio nei
suoi confronti perché la coscienza, nel
frattempo, mi bisbigliò un paio di cosine
spiacevoli. Se Vanessa aveva incrociato la mia
rotta in FB ed in FB le avevo risposto per le
rime su un argomento che avrebbe dovuto stare
fuori da un network qualsiasi, significava che
qualcosa non quadrava nel nostro rapporto
filiale e nel rapporto familiare, sua mamma (mia
moglie) compresa. E se mi ero piccato tanto, la
deduzione era elementare: il colpo del ko lo
aveva sferrato mia figlia a me, percependo la
verità, quella che io avevo cercato di
nascondere a lei ma non potevo nascondere a me
stesso. Desideravo Rosanna, la trasgressione. Lo
dimostrarono i giorni e i mesi seguenti,
ravvivati e agitati da peripezie fanciullesche,
sovrastanti la razionale esperienza del
(presunto) adulto. Non essendo un adone,
nonostante una buona fotogenia, non capivo quale
mia sconosciuta virtù avesse
fatto breccia nel
cuore da facebook della trentenne, seducente
Rosanna. Almeno in un primo tempo credei che
fosse stato tutto merito della mia capacità di
toccare le corde giuste del soddisfacimento
della vanità che la ragazza aveva tradito
implicitamente con il suo ammiccante messaggio
originario. Una così, che sa di essere una
bomba, va brillata come una bomba. Con la mia
“amica” n. 358, sicuramente speciale, si
interruppero i messaggi FB e di per se’ anche
questo implicava il passaggio da una
corrispondenza normale, come le numerose altre,
ad una nuova sfera di infingimenti e di
sotterfugi. Qualcosa non più in buona fede, per
intendersi. Cominciarono gli incontri e gli
appuntamenti. Al bar per un caffè, in redazione
con una scusa qualsiasi sulle sue attività in
campo culturale, sul lungomare per una corsetta
salutare e casuale solo agli occhi altrui, ai
campi da tennis, sul masso frangiflutti del
porto depositario dei miei ricordi più belli
dell’adolescenza e della giovinezza a misura
d’uomo che mi avevano convinto a non lasciare la
mia città, Giulianova, per una carriera diversa
ed appagante a Roma. Non mi ponevo alcun dubbio
ed alcuna domanda su come mai non mi
sorprendesse l’accondiscendenza priva di
fronzoli di Rosanna all’empatia che si era
creata tra di noi, subdola ma reciprocamente
cosciente. Dalle nostre parti si dice che
”quelle che nen’se fa nen’se sa”. In barba al
detto, io riuscivo a tenere il segreto. Merito
della complicità, per motivi suoi a me
sfuggenti, di Rosanna. Malgrado il carico dei
miei turbamenti provocati dallo sforzo di fare
apparire tutto normale nella mia sconvolta
quotidianità, e malgrado i sobbalzi in piena
notte, a me non sembrava di tradire mia moglie.
E nemmeno le mie figlie, preso com’ero in
maniera istintuale da una giovane che poteva
essere la loro sorella. Il turbinio dei miei
desideri, non completamente appagati e
soddisfatti nella routine, abbatteva ogni
barriera. Eppure negli incontri tra me e Rosanna
scattò un congegno romantico inimmaginabile per
due navigatori in internet, almeno secondo gli
stereotipi che di essi hanno perbenisti e
tradizionalisti. Rosanna ed io eravamo capaci di
intrattenerci anche un paio d’ore – tante se
rubate alla clandestinità – sui miei articoli,
sulla storia, sulla politica, sui nostri anni di
università, sulle sue difficoltà di trovare
l’occupazione adeguata alla sua laurea in
Psicologia. Ancora più incredibile a credersi,
salì in superficie la comune passione per la
poesia. La poesia dei classici, ma soprattutto
la poesia dei nostri cassetti, i versi che
ognuno di noi, comuni italioti, butta giù e
tiene chiusi a chiave nel proprio pudore.
Rosanna, causa la sua naturale predisposizione
di psicologa a disinibire le anime ritrose, fece
in modo che io aprissi inavvertitamente il mio
cassetto. Dall’involucro delle mie
adolescenziali ispirazioni caddero su un foglio
a quadretti spiegazzato alcuni versi, resi quasi
illeggibili dalla scrittura ansimante e timorosa
che essi si disperdessero nell’aria:
Mi accompagni ovunque.
Sei il mio sogno
e sei il mio incubo.
il fuoco che mi brucia
e il
ghiaccio che mi gela.
Sei la mia purezza
e il
mio peccato,
la mia libertà
e la
mia prigionia,
il mio coraggio
e la
mia vigliaccheria,
il risveglio dell'ardore
e il
sonno del torpore.
Sei la mia adolescenza
e la
mia senilità:
le ali dell'incoscienza
e le
catene della razionalità.
Sei la mia Lucia
e la
mia Ortensia,
sei la mia Laura
e la
mia Francesca.
Sei l'attimo che fugge
alla tua partenza
e l'eternità che separa
dal tuo ritorno.
Siccome l’amore o la disperazione rende a volte
idioti e ridicoli nella svendita della propria
dignità, ebbi il coraggio di declamarli ad alta
voce, come mai mi era riuscito di fare in tanti
anni durante i quali decine di poesie erano
ingiallite nella scrivania del mio studio. E
gliele lessi, io sprofondando nei suoi occhi
alla Liz, ficcanti ed enigmatici, lei
scrutandomi con insospettabile interesse e
gratificante ammirazione. Io non assaporavo più
lei con la voluttà del ricercatore d’avventura,
lei mi accettava senza mai chiedere dettagli
imbarazzanti sul mio stato coniugale. Sapeva che
io sapevo che lei sapeva, tanto per parafrasare
il titolo di un emblematico film con Alberto
Sordi e Monica Vitti. Parlavamo tanto di noi due
che fu inevitabile alzare il velo da una verità
che sconcertò la mia posizione già sconcertante
di fedifrago: Rosanna era figlia di un mio
vecchio compagno delle scuole superiori. Il
bello è che lei ne era al corrente sin
dall’inizio della storia ma tirò fuori il jolly,
con la naturalezza di chi dà tutto per scontato
e naturale, in un pomeriggio uggioso in cui ci
ritrovammo, per la prima volta, nel fatidico
nido che si era ficcato nella mia immaginazione
dalla sua prima richiesta di amicizia su FB: il
suo appartamento. Era un monolocale arredato con
sobrietà e tinte variegate ma non forti,
rassicuranti, accoglienti eppure per niente
spenti. Un ambiente che accresceva in me la
considerazione verso una ragazza non
sprovveduta, intelligente, che non faceva nulla
per caso o nulla che non volesse. Ebbene, in
quei frangenti estatici, Rosanna ammiccò: “Mio
padre mi ha detto che a scuola te la cavavi, al
contrario di lui, ma facevi tribolare i
professori con il tuo caratterino ribelle. Anche
a calcio avevi un talento fumantino”. Rimasi di
stucco, con la sorpresa di chi scopre l’acqua
calda e sbiascicai: “Tuo padre?!”. Rosanna
tratteggiò in due parole l’identikit
dell’artigiano che aveva un capannone a una
decina di chilometri dalla mia città. Ma certo,
che imbranato! Come avevo fatto a non
ricollegare il cognome, l’appartamento sulla
nazionale per Teramo, la fisionomia di Rosanna
spiccicata a quella di Giacomo…Diamine, Giacomo,
il marcantonio un po’ Garrone che alle
Magistrali, durante la ricreazione, mi allungava
un pezzo di stozza con la ventricina o con una
mortadella profumatissima e si schierava sempre
con me a pallone nei giorni di cup appena fuori
Teramo. Primordiali sinergie di gruppo. Sicuro,
Giacomo, che un giorno di 37 anni fa mi aveva
presentato una
splendida ragazza di Civitella
del Tronto
(nella foto)
con la quale mi fidanzai, una cotta
che arrivò a bruciare 45 chilometri di zig zag
in 35 minuti, una doppietta dietro l’altra sulla
Fiat 500 L gialla, tre volte a settimana, più
gli extra, frequenti, appena avvertivo il
desiderio di un abbraccio nella Fortezza o nel
cortile della casa di una sua amica, ritrovo
galeotto di atmosfera flaubertiana in Madame
Bovary. Un fuoco giovanile che sentivo ardere di
nuovo dentro di me al cospetto di Rosanna,
adesso in camicetta succinta ma lunga il tanto
da occultare le intimità. Nel pomeriggio uggioso
del mese tre, giorno sedici, ora diciassette,
minuto ventuno di spericolatezze, sotterfugi e
peripezie spasmodicamente secretati,
d’improvviso le note travolgenti di You Can
Leave Your Hat On cominciarono a sfumare.
Non so se avevo captato giusto il “mi piace
stare con te” sussurrato da Rosanna nella magica
atmosfera in luogo di un troppo impegnativo “ti
amo” che, al contrario, avevo la tentazione di
azzardare io. Davanti a me era a portata di mano
l’oggetto dei desideri di mesi di clandestinità,
di ipocrisia, di doppio gioco, di scuse più o
meno sciocche che avevano ammantato anche ogni
senso di rimorso e di pudore, ed ogni coerenza
con i fondamenti di fedeltà in quasi sei lustri
di matrimonio. Avevo di fronte la ragazza che
aveva scagliato la freccia della seduzione su
FB, che avevo accarezzato su FB, che avevo
posseduto su FB. Davanti a me Lei, non più la
semplice “amica 358”. D’un tratto dietro di lei
apparve e svanì Giacomo, il mio compagno di
scuola. E via via, come negativi di una
pellicola, la sagoma di Vanessa, con il viso
ombroso, l’espressione accigliata di sua sorella
(l’altra mia figlia) e gli occhi compassionevoli
della loro mamma (mia moglie). Qualche luccichio
di sudamina ed un improvviso pallore tradirono
il mio stato d’animo. “Che hai?”, mi chiese
Rosanna con aria investigativa, tanto svestita
quanto interdetta. “Scusami, mi sono ricordato
che devo inviare un articolo al giornale. Sono
in ritardo”, ruminai. Ebbi appena la forza di
sfiorare il suo viso con una carezza tremante.
Rosanna ricambiò con un sogghigno che smise di
essere interdetto e preoccupato per diventare
dolce e comprensivo, accompagnato da un
eloquente: “Già!”. Mi precipitai fuori dal
monolocale, improponibile rifugio delle mie
nostalgie ruggenti, e mi infilai in auto, mentre
si faceva avvertire l’ultima, incalzante
vibrazione del cellulare. Frugai affannosamente
nella tasca del mio impermeabile dove il
tecnologico richiamo all’ordine e alla realtà
era aggrovigliato. Mi ritrovai in mano 5
chiamate perse nel display, nessuna del
giornale, ed un pacchetto rosso, accuratamente
infiocchettato. Dentro, un anellino. |