GIULIANOVA, 24.8.2013
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Il giornalista e critico letterario, Simone
Gambacorta, ha intervistato Lino Manocchia per
il quotidiano
"La
Città" di Teramo ( CULTURA E SOCIETÀ di
mercoledì 21 agosto 2013, pag 17,
PERSONAGGI). Pubblichiamo integralmente
l'intervista dal titolo "Novantadue primavere e
la gioia d'essere giornalista" - Lino Manocchia
si racconta: «Nel ‘46 lasciai Giulianova per New
York». A ottobre un libro di interviste e
memorie.
di Simone Gambacorta
Una storia lunga, quella di Lino Manocchia, che
giovanissimo lasciò la sua Giulianova per
approdare a New York. Dopo la prigionia nei
lager tedeschi tornò a casa e trovò attorno a sé
morte e distruzione. Decise allora di tentare la
carta degli States e solcò l'Oceano. Pian piano,
quella che un tempo era la terra delle
opportunità gli ha permesso di diventare quel
che sognava: un giornalista. La sua lunga
carriera è cominciata così, con un salto dal
vecchio al nuovo continente. In tanti anni di
lavoro, Manocchia ha firmato servizi per la Rai,
si è occupato di sport - a cominciare
dall'amatissimo automobilismo - ha intervistato
cinque presidenti Usa, Salvador Dalì e una folta
serie di star di Hollywood, fra cui quel Paul
Newman che fu suo amico. Una vita spesa per un
giornalismo vissuto in prima persona, a tu per
tu con i fatti e i protagonisti, tra radio,
televisione e carta stampata. Un giornalismo
vissuto come seconda pelle, con l'entusiasmo
dell'adolescente e l'umiltà del saggio. In
autunno il novantaduenne Manocchia - che giusto
sabato scorso ha ricevuto un premio
dall'Accademia di San Giovanni Crisostomo - darà
alle stampe con la casa editrice Artemia un
libro, una raccolta di interviste e memorie. In
attesa di leggerlo, abbiamo pensato di
intervistarlo per farci raccontare qualcosa sul
suo percorso. E lui, dalla sua casa di
Cambridge, nello stato di New York, ha accettato
di buon grado.
Quand'è che decise di partire per gli Stati
Uniti?
«Dopo tre anni di vacanza nei lager tedeschi,
tornato in Italia, trovai mio padre al cimitero,
ucciso dalla scheggia di una bomba sganciata
degli aerei inglesi. Trovai anche mio fratello
Benny ferito in varie parti del corpo, e la mia
casa distrutta. Lavorai un anno al Comune di
Giulianova continuando a scrivere per «Momento
sera» ed altri fogli che avevo dovuto lasciare
partendo per la Germania. Furono poi alcuni
direttori a suggerirmi di “attaccare” gli Stati
Uniti, e dopo le dovute documentazioni, il 6
marzo 1946 mi accinsi ad attraversare l'Oceano
per arrivare a New York».
Qual è stato il percorso che, negli States, l'ha
portata a diventare un giornalista?
«Momenti duri per un abruzzese che non parlava
l’inglese. Aiutai mio suocero, Adriano Di
Michele, emigrato da Giulianova, e imparai il
mestiere del macellaio. Intanto trovavo il tempo
per inviare servizi sportivi ai quotidiani
italiani - «Stadio» e «Corriere dello sport» - e
periodicamente trasmettevo servizi per le
redazioni regionali della Rai, partendo
dall’Abruzzo, dove allora era direttore l’amico
Dino Tiboni. L'ingresso nelle stazioni radio di
New York fu rapido: presentavo interviste e
intermezzi musicali. Incontrai Mike Bongiorno
quando anche lui faceva la gavetta, e finimmo a
Voice of America, mentre l’amico Ruggero Orlando
mi diede la giusta spinta, piazzandomi alla Rai
di New York. Alla Rai, dopo i servizi regionali
di cui parlavo, abbracciai servizi di una certa
importanza, ai tempi di Pia Moretti, Carlo
Bonciani e una schiera di vari direttori. Mi
permetto di segnalare il plauso della Rai di
Torino per un mio documentario sull'Anno
Geofisico, che ottenne il massimo del
coefficiente d’ascolto, superando anche
l’inchiesta, fatta per la Rai di Palermo, per il
Ponte sullo stretto. Una cornucopia di
registrazioni gelosamente custodite nel mio
palmares. Ho intervistato dozzine di star di
Hollywood. Mi sono occupato di reportage
sportivi, di calcio, corse automobilistiche
nella principali città americane, ho fatto
servizi dal Messico, dal Canada, dal Brasile,
per quaranta volte consecutive ho seguito a
Indianapolis la Cinquecento Miglia. Il tutto
racchiuso in sessant'anni di attività che mi
hanno permesso, fra l'altro, di intervistare
cinque Presidenti degli Stati Uniti».
Ha avuto dei maestri o è stato autodidatta?
«Il primo "maestro” fu mio padre Francesco
Manocchia, scrittore di fama, che mi strappò un
servizio sulla “Maggiolata” di Giulianova. Mi
disse: "Con simili servizi finirai per fare la
fame”. Ma la costanza, la pazienza e un tocco di
fortuna non mi hanno fatto chiedere l’elemosina
».
Che giornalismo era quello degli anni in cui
esordì?
«Un giornalismo da sacrestia, una incoerenza
ideologica della Democrazia Cristiana, una
falsariga del movimento di sinistra dove regnava
un motto: se sei con noi entra, altrimenti
esci».
Quali sono le differenze tra il giornalismo
made in Usa e quello made in Italy?
«Negli Stati Uniti c'è l’indipendenza del
giornale, quando basta a se stesso, e c'è la
facilità di separare i fatti dalle opinioni. In
Italia c'è l'arte di mentire con l'aria di dire
la verità. Sanno essere dei grandi giocolieri
della carta stampata e scrivono per se stessi e
non per il pubblico, dimenticando il primo
dovere d’un giornalista: essere sincero.
L'indipendenza della stampa italiana è
pressappoco scomparsa, poiché quasi tutti fanno
parte della galassia Agnelli-Berlusconi, a muro
chiuso. Un rituale artefatto a discapito
dell'onesto lettore».
Ma per lei che cosa ha significato, e che cosa
continua a significare, essere un giornalista?
«Il giornalismo mi ha insegnato la competitività
leale e un principio professionale a cui non si
può derogare: dire sempre ciò che si pensa, con
coraggio morale. Con le mie novantadue primavere
avanzate, mi riempie di gioia e di orgoglio
potermi definire giornalista».
Quali sono, secondo lei, le qualità che non
possono mancare a un giornalista?
«Una buona cultura, una certa dose d’umanità e
un po’ di psicologia, unite al buon senso e al
rispetto delle regole».
Nel corso della sua carriera ha firmato molte
interviste a grandi personaggi, da Paul Newman a
Dean Martin sino ad arrivare a Mario Andretti,
Salvador Dalì e altri. Qual è quella a cui è più
affezionato?
«Uomo dal cuore generoso, coraggioso, pronto a
difendere i diritti e la giustizia nel mondo,
munifico benefattore sempre pronto ad aiutare
chi aveva bisogno, decano dei grandi interpreti
classici, Paul Newman è stato il “vecchio”
cordiale col quale, tra una corsa d’auto e
l’altra, da cronista scambiavo impressioni. Il
grande divo di Hollywood si considerava "un
libro che ancora si doveva leggere". Purtroppo
quel magnifico saggio letterario ed umano
rimarrà sconosciuto. Attore, pilota, decano
delle star, aveva carisma e talento. Più schivo
di uno stilita, più elusivo di una prima donna,
allergico alle pose, all’enfasi, alla
pubblicità, Paul “occhi blu” per trent'anni anni
è stato l’amico della porta accanto. Non potrò
dimenticarlo».
Come preparava le sue interviste?
«Il giornalista prima di intervistare deve
sapere, e per sapere deve informarsi.
Naturalmente un buon curriculum
dell’intervistato aiuta molto nella ricerca di
domande, di sfumature che altrimenti andrebbero
perdute. Ma una buona conversazione senza
microfono con l’intervistato è la migliore fonte
d’informazioni. Un po’ di fantasia non guasterà
l’atmosfera».
Qual è il limite da non superare quando si pone
una domanda a una persona che si sta
intervistando?
«Dipende sovente dalla curiosità e
dall’interesse del cronista, che spesso, per
timore di “sfondare,” accorcia il numero di
domande; oppure altre volte fa troppo e rovina
il lavoro. Il troppo storpia e l’intervista
diventa materiale da esame, un rituale artefatto
e insipido ».
Come giornalista, quali sono state le sue
grandi passioni? «Avevo sedici anni ed ero
un fan della musica americana, con i suoi Glen
Miller, Tommy Dorsey, Louis Armstrong e gli
altri assi delle Big Band. Sognavo il giorno in
cui avrei potuto mettere piede in America e
vedere la Indy, Bonneville sul Lago Salato e le
grandi piste ovali, che fortunatamente, in
seguito, vidi, provando spesso qualche bolide,
come quello di Mario Andretti o di altri assi
yankee. Era una passionaccia che fortunatamente
appagai seguendo e descrivendo per la stampa
italiana eventi memorabili, come la vittoria
nella Cinquecento Miglia di Indianapolis del
1969 dello stesso Andretti, oggi Commendatore
della Repubblica».
In autunno una selezione delle sue interviste e
memorie sarà pubblicata dalla casa editrice
Artemia: com'è nata l'idea?
«E' stata un'idea brillante della dinamica
direttrice Teresa Orsini, una vera first lady
dei libri: le sono grato e sono sicuro che i
lettori troveranno dettagli particolari mai
pubblicati e "scoop" che coinvolgono le star di
Hollywood ».
Nella scelta di una casa editrice abruzzese
c'è anche la volontà di riavvicinarsi alla sua
terra natale?
«Tante volte durante la mia collaborazione con
la Rai, col «Corriere dello Sport», col
«Corriere della Sera» e altre testate mi è
capitato di tornare a Giulianova. Non mi sono
mai distaccato da Giulianova, anzi la seguivo e
la seguo dall’America più che mai. L’America è
la mia seconda patria e mi ha dato libertà
d’azione e di pensiero, tuttavia il sangue
abruzzese continua a scorrere nelle mie vene, e
non nascondo mai di essere nato e cresciuto
nella spiaggia dalla sabbia dorata
dell’Adriatico, all’ombra del maestoso Gran
Sasso. E non lo dico in senso retorico: questo è
il sentimento delle mie radici, della mia
origine».
Dall’America, in tanti anni di lavoro, come
vedeva la sua città d’origine?
«Giulianova - se vogliamo - ha la colpa di aver
ignorato i suoi figli migliori. Molti sono
partiti per altre mete, altri lidi, e hanno
fatto largo ai cosiddetti “stranieri”, che
tuttavia - mi dicono - hanno dato un buon
contributo alla città. E sorpresa delle
sorprese, l’odioso provincialismo di un tempo è
stato accantonato. Sono scomparsi fogli ricchi
di notizie ed inchieste, ma in compenso si sono
moltiplicati i siti internet in grado di offrire
ottimi servizi. Il mondo, del resto, accetta le
scoperte e non s’arresta. E così come la
televisione ha cambiato la vita dei giornali,
qualche altro fenomeno in fase di transizione
modificherà il nostro modus vivendi. Intanto,
citando Lavoisier - "nulla si crea, nulla si
distrugge ma tutto si trasforma" - salutiamo il
futuro». |