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YORK, 1.1.2013 -
Vorrei che quest’anno la Befana potesse avere lo
stesso spirito, la stessa poesia dei miei anni
più cari, poterle scrivere la letterina piena di
pretese, andarmi ad infilare fra le coltri con
l’inutile intenzione di dormire.
Vorrei essere capace di appendere alla cappa del
camino una lunga calzetta (la più grande che si
trovi nella casa) metterle il caffè in serbo,
lasciarle il ‘ciocco’ acceso, vorrei infine
addormentarmi solo quando il sonno mi avvolge
insensibilmente come morbide spire di velluto e
destarmi d’un tratto, come una reminiscenza, e
combattere meravigliosamente fra l’impulso di
correre in cucina, a piedi nudi e in camicia, e
il timore di buscarmi un rimprovero dal babbo
previdente che teme un forte raffreddore.
Tutto questo, vorrei, ma non lo posso più.
Perchè tutto è passato.
Passato il tempo in cui il cuore era poesia,
passato il tempo di narrarsi delle fiabe.
Non c’è più la ”Infermiera di Tata”, non c’è più
lo “Scrivano fiorentino” o “Cenerentola”, e non
c’è più nemmeno la Befana. Anzi c’è, ma è
malata.
Quel saggio tremendo positivismo, quel calcolo
empirico, quella fredda lambiccatura cerebrale
che possiede l’umanità di oggi, hanno inquinato
perfino la Befana. Ed essa oggi, c’è ma è
malata.
Malata di stanchezza, come ogni cosa di ieri.
Stanca è la Befana. Stanca di viaggiare per le
stelle, stanca di entrare pei camini, stanca di
tutto: dalle calze di lana casereccia, dalle
lunghe e pietose letterine, stanca di correre
pel mondo, oggi che il mondo non la crede.
Ha imparato ad entrare tra i tronconi delle
case, per le porte e le finestre senza vetri. Ha
imparato a non trovare il ”ciocco”, la Befana, e
a non bere il caffè e poi ha imparato a contare.
Tutte le case ha dovuto ricontare. E quante ne
mancavano, tante che le è rimasto il sacco pieno
di balocchi.
E forse li avrà portati al cimitero sulle tombe
di fresco.
Povera tradita Befanuccia, quante ne hai sentite
in poco tempo! Ti hanno chiamato la “Befana di
Guerra”, ”la Befana Fascista”. Hai imparato ad
avere tanti nomi. Nomi che tu non amavi e che ti
stavano male.
Oggi però non ti devi adirare,”Befanuccia
piccina piccina” che vai sopra una scopa per
l’azzurro. Oggi pero’ non devi sorridere se ti
chiamano la “Befana di Pace”, Befana di pace su
questo mondo martoriato. Befana che segui una
stella di pace che ti porta verso una capanna
dove è nata la pace fra gli uomini. Befana che
spargi la pace col sorriso d’un dono, non ti
devi adirare.
Donacela! Donaci, Befana, quella pace per la
quale tu vivi e per la quale viviamo.
Al bambino che ti chiede il suo trenino, a suo
padre che ti chiede solo il pane quotidiano,
anche al Sindaco che chiede delle case per il
suo Paese, tu magari Befana non dar nulla o da
di meno, ma da loro la Pace.
E forse con la pace gli uomini ritroveranno se
stessi: l’”Infermiera di Tata”, per esempio, ed
il “Piccolo scrivano fiorentino”.
Come una volta.
Una volta tanto
bella. |