OFFIDA (Ap),
28.6.2013 -
Dall'Associazione Blow Up riceviamo e
pubblichiamo:
Anche quest'estate torna
ad Offida, in Largo della Musica, sempre di
giovedì sera, la consueta rassegna frutto della
più che decennale e felice collaborazione tra
l'Assessorato alla Cultura di Offida e
l'Associazione Culturale Blow Up, "CINEMAPERTO -
Percorsi nel cinema contemporaneo". Sei serate,
a partire da giovedì 4 luglio, con le
videoproiezioni di sei capolavori del cinema
contemporaneo internazionale, brevemente
introdotti da noi dell'Associazione Blow Up e
poi commentati con piacevoli conversazioni, dopo
la visione, insieme a chi del pubblico presente
vuol rimanere. Non mancate!
Calendario
Giovedì 4 luglio, Largo
della musica, ore 21.30
“In un mondo migliore”
di Susanne Bier
(Danimarca/Svezia 2010, col, 113’)
Christian non ride e non
perdona mai. Rimasto orfano si trasferisce in
Danimarca con il padre, nella nuova scuola
incontra Elias, timido, pestato dai bulli
d'ordinanza, genitori perfetti sul lavoro e meno
nella coppia. I due scolaretti cominceranno
insieme un cammino verso il male sotto gli occhi
impotenti dei pur coscienziosi genitori.
Premio Oscar 2011 come miglior film straniero.
Come in Dopo il matrimonio la Bier imposta un
racconto spola tra famiglia e diverse realtà:
povertà e ricchezza.
In un mondo migliore
quindi è un viaggio a colpi di montaggio
alternato tra l'Africa dei medici da campo e la
Danimarca opulenta dei borghesi. Allieva di Lars
Von Trier, la regista ha qualche lascito del
dogma: le zoomate improvvise nei momenti
cruciali, ma più che forma porta in dote quel
contenuto raggelante e intenso, bollino di
qualità dei film danesi. "C'è del marcio in
Danimarca" e ovunque. Non esiste primo o terzo
mondo: con una regia di minimalismo deciso
l'autrice danese evita i sociologismi e
suggerisce, con tensione costante e perfetta,
che la violenza nasce in qualsiasi luogo e
condizione sociale, non c'è contesto o
spiegazione socioculturale che tenga. La civiltà
e il progresso sociale sono bei vestiti da
indossare ma si rovinano quando c'è lutto,
morte, sofferenza: tre bestie divoratrici
dell'evoluzione simbolo del Nord Europa.
Giovedì 11 luglio, Largo
della musica, ore 21.30
“Re della terra selvaggia”
di Benh Zeitlin (USA 2012,
col, 91’)
Hushpuppy ha sei anni e vive sola con il padre
Wink nelle paludi del sud della Louisiana, in
una zona chiamata la Grande Vasca, per gli
allagamenti a cui va incontro in occasione dei
cicloni. Mentre lo spettro di un terribile
uragano spaventa la comunità del luogo, mettendo
in fuga molti, Wink scopre di essere gravemente
malato e di dover preparare la figlia a
cavarsela da sola. Il suo desiderio è che
Hushpuppy non abbandoni la sua terra, ma ne
diventi un giorno il re, la creatura più forte.
Re della terra selvaggia è
un esordio storico, di quelli che contengono una
tale potenza che rischiano di segnare la vita
del suo autore per sempre. Perché è un film nel
quale accade una magia, per cui le
contraddizioni coesistono fruttuosamente e ciò
che altrove sarebbe sembrato un difetto qui
diventa una ricchezza. A partire dal budget.
Piccolo, nelle coordinate della storia così come
negli ambienti ritratti, il film contiene però
il pathos della grande avventura, l'estetica
della grande parabola mitologica sulla fine e
l'inizio del mondo e nessun sentore della misura
minimalista di tanti esordi. Eppure non esonda
mai, non si ha mai la sensazione che sia
sovraccarico o pretenzioso: la sua superficie è
fatta di piccole cose, dialoghi brevi, sguardi
più testardi che tristi, ma, sotto, si
percepisce la presenza di un mondo sommerso, un
discorso profondo sulla paura della perdita. Si
dice che nella vita il destino ci riservi ciò
che siamo in grado di sopportare ed è un
pensiero che si addice alla perfezione al
personaggio di Hushpuppy, ma anche al film nella
sua globalità. Vincitore del Sundance Film
Festival 2012.
Giovedì 25 luglio, Largo
della musica, ore 21.30
“Miracolo a Le Havre”
di Aki Kaurismaki
(Finlandia/Francia/Germania 2011, col, 93’)
Il lustrascarpe Marcel Marx vive a Le Havre tra
la casa che divide con la moglie Arletty e la
cagnolina Laika, il bar del quartiere e la
stazione dei treni, dove esercita di preferenza
il proprio lavoro. Il caso lo mette
contemporaneamente di fronte a due novità di
segno opposto: la scoperta che Arletty è malata
gravemente e l'incontro con Idrissa, un
ragazzino immigrato dall'Africa, approdato in
Francia in un container e sfuggito alla polizia.
Con l'aiuto dei vicini di casa - la fornaia, il
fruttivendolo, la barista - e la pazienza di un
detective sospettoso ma non inflessibile, Marcel
si prodiga per aiutare Idrissa a passare la
Manica e raggiungere la madre in Inghilterra.
Un cast di attori
franco-finlandesi, con le facce e le fogge da
polar melvilliano, interagiscono in quel di Le
Havre in un quartiere dove ancora "buongiorno
vuol davvero dire buongiorno", per usare -
assolutamente non a caso - una frase di Miracolo
a Milano di De Sica e Zavattini. Eppure, la
battuta più bella ed emblematica del film è
proprio: "restano i miracoli", dice il dottore,
"non nel mio quartiere", chiosa Arletty. È tutto
qui il miracoloso (questo sì) nodo di poesia e
disincanto, ottimismo e amarezza di cui è fatto
Le Havre, uno dei migliori Kaurismaki in
assoluto. Il finale si preoccuperà poi di
illuminare il concetto, con uno splendido e
improbabile ciliegio in fiore: un altro mondo è
possibile o ci vorrebbe davvero un miracolo
perché una storia come quella di Idrissa
accadesse nella realtà? Entrambe le cose, sembra
dire il regista: il cancro che affligge il
nostro modo di vivere e di agire è a un livello
più che mai avanzato, ma "restano i miracoli".
Giovedì 1 agosto, Largo della musica, ore 21.30.
“Tutti i nostri desideri”
Philippe Lioret (Francia
2011, col, 120’)
Claire è una giovane
magistrato del Tribunale di Lione. Ha due figli
piccoli e una vita familiare serena fino a
quando l'individuazione di un tumore cerebrale
la sconvolge. Decide però di tener nascosta al
marito la malattia temendo che lui non riesca a
sopportare lo choc. Claire si trova inoltre di
fronte a un palese caso di circonvenzione da
parte di un istituto di credito nei confronti di
una giovane madre con cui è entrata in contatto
dato che i figli frequentano la stessa scuola
materna. Con la collaborazione di Stéphane, un
collega determinato e più in là negli anni
decide di procedere affinché la trasparenza nei
contratti sia ineludibile. Il tempo però
stringe. Philippe Lioret, dopo quel film
notevole che è Welcome torna ad affrontare
un'importante tematica sociale passando
attraverso delle storie individuali e non avendo
timore di entrare nel territorio del mélo. Il
tema è quello, sempre più socialmente
devastante, dei prestiti concessi dagli istituti
di credito. Accade che in Francia (e non solo)
molti vengano attratti ingannevolmente ad
accendere un prestito per poi ritrovarsi
progressivamente indebitati in modo
esponenziale. Anche se costoro rappresentano
meno del 3% del totale e che la compensazione
grazie ai tassi proibitivi sia più che
remunerativa per le società esse procedono
comunque spietatamente nei confronti dei
creditori per evitare l'emulazione. Come in
Welcome, nuotare permette a Lioret, sound editor
prima che regista, di calare i propri personaggi
in un impasto sensoriale completo, dove i corpi
rabbrividiscono, annaspano, faticano, vivono
pienamente. Ispirato al libro Vite che non sono
la mia di Emmanuel Carrère.
Giovedì 8 agosto, Largo
della musica, ore 21.30
“Tulpan – La ragazza che non c’era”
di Sergej Dvortsevoy
(Kazakistan/Germania/Svizzera/Russia/Polonia
2008, col, 100’)
Dopo aver terminato di
prestare servizio come marinaio il giovane Asa
torna a casa nella steppa del Kazakistan dove la
sorella e il cognato, pastori, conducono una
vita nomade. Prima di rientrare nella vita
lavorativa e diventare a sua volta pastore Asa
deve sposarsi. La sua unica speranza risiede in
Tulpan, figlia anche lei di un pastore. La
fanciulla è determinata nel rifiutare la
proposta: Asa ha le orecchie troppo grandi e poi
lei vuole andare a vivere in città, ad Alma Ata.
Il ragazzo, parzialmente consolato dal fatto che
anche il principe Carlo d'Inghilterra è ben
fornito di padiglioni auricolari, non si
arrende.
Il cinema kazako offre
spesso delle interessanti e poetiche sorprese
quando fa la sua comparsa sugli schermi dei
festival internazionali. È quanto accade anche
con il film di Sergei Dvortsevoy, che riesce a
trasmetterci l'innocenza di un mondo in cui il
nomadismo legato alla pastorizia permea di
valori e tradizioni antiche la vita di tutti i
giorni. Il regista però non cerca il comodo
rifugio della descrizione di un mondo incantato
e immobile nel tempo. Ci descrive anche,
attraverso i desideri di Tulpan, le sirene della
modernità che invitano a un'urbanizzazione che
può rappresentare una meta non sempre
corrispondente all'immagine che se ne forma chi
ne vive lontano. Ne consegue un film in bilico
tra due mondi su cui si posa uno sguardo
desideroso di fissare sullo schermo la memoria
di una civiltà progressivamente destinata a
scomparire. Vincitore di tre premi ad Un Certain
Regard al Festival di Cannes.
Giovedì 15 agosto, Largo
della musica, ore 21.30
“Lo zio Boonmee che si ricorda le vite
precedenti”
di Apichatpong
Weerasethakul (Thailandia/Spagna/Gran
Bretagna/Francia 2010, col, 90’)
Zio Boonme, arrivato allo
stadio terminale di una malattia ai reni, decide
di andare a trascorrere i suoi ultimi giorni
nella casa in campagna. Con lui alcuni membri
della famiglia. All'improvviso però arrivano la
moglie morta, sotto forma di fantasma, e il
figlio creduto perduto, ormai diventato un uomo
scimmia. Sperando di entrare in contatto con le
sue vite passate, Boonme si reca in una grotta
nella quale compie un viaggio all'interno di sé
stesso e in cui finalmente muore. Apichatpong
Weerasethakul è un regista che fa riflettere sul
ruolo dell'uomo all'interno di un universo
composto da animali, natura ed elementi della
metafisica. La storia di zio Boonme parte come
l'esplorazione degli stadi finali della vita di
un uomo e finisce con un viaggio attraverso le
sue possibili incarnazioni passate tracciando un
filo unico tra ciò che è, ciò che è stato e ciò
che probabilmente sarà. Nel viaggio in
questione, però, non è il racconto a mostrare
quali siano quelle vite ma le immagini, e la
risposta non è univoca. Ispirato ad un libro
scritto da un monaco buddista il film suggerire
una visione più ampia del mondo in cui il fisico
convive con il metafisico senza cesure. Il suo
fascino magico e antirealistico, capace di
mescolare quotidianità e fantasia, sogni e
concretezze è piaciuto moltissimo al visionario
Tim Burton, presidente della giuria a Cannes che
lo ha voluto premiare a tutti i costi con la
Palma d’Oro, ma sarebbe piaciuto molto anche a
Pier Paolo Pasolini, per il richiamo a un mondo
e a una cultura che stanno scomparendo e che il
film racconta con amore e passione coinvolgenti
e coraggiose. Il suo fascino ipnotico ha
incantato spettatori e critici di tutto il
mondo. Maurizio Porro (Corriere della sera) ha
scritto: “Eccolo il vero Inception, il film che
davvero ti conduce dentro il mistero del sogno,
dell’incubo, tra vivi e morti e le infinite
magie che provengono da una civiltà e da un
cinema che non smette di stupire per la sua
immaginazione senza bisogno di computer”. |