Lettera dal campo
Campo di concentramento di Civitella del Tronto, 10 Aprile
‘44
Mein liebe,
sono contento. E non succedeva da un po’. Oggi
Jacob, quello che s’arrangia col fare il
barbiere, mi ha confidato una notizia speciale:
il Parroco sembrerebbe disposto a spedire
qualche lettera, ma non di chiunque, solo di chi
si fida. C’è da capirlo.
Di Jacob si fida e Jacob si fida di me e
soprattutto della promessa che il prossimo pacco
della Croce Rossa sarà suo (per me tratterrò
solo qualche sigaretta. Lo so, lo so che fa
male, ma fumare mi aiuta).
Finalmente. Ci pensi? Finalmente potrò
dischiudere il cuore senza timore d’essere
deriso, schernito per via dell’età. Non dire che
non dovrei importarmene, mi importa, invece, per
forza: la mia non è vergogna – te l’ho già detto
– ma desiderio di preservare i sentimenti che
impudicamente vengono scrutati, violati e
talvolta arrestati come hanno già fatto con il
corpo. Ti prego capiscimi.
Fai tanta attenzione, mi raccomando, se
malauguratamente scoprissero la cosa metteremmo
nei guai delle brave persone.
Questa lettera speciale, infatti, come ogni
altra, ti giungerà col timbro “verificato per
censura” anche se incredibilmente nessuno l’ha
unta con le mani e violentata con gli occhi.
Diavolo d’uno Jacob. Lasciato solo in ufficio
per pochi istanti è riuscito a timbrare circa
venti buste, timbrava come un forsennato, poi
calmo, e con mano ferma, ha ripreso a spuntare i
baffi del Direttore.
Forse ne avrò cinque, cinque buste, cinque volte
io e te. Soli.
Se penso a tutte le volte che ho preso in giro
mio padre mi viene da sorridere, ma poi... da
piangere: diceva – ce l’ho ancora nell’orecchio
– che la vecchiaia per certi aspetti assomiglia
alla fanciullezza, che ci si intenerisce
nuovamente e facilmente ci si commuove. Oggi lo
capisco senza poterglielo più dire, allora mi
pareva un inizio di rincoglionimento.
Rammenti i nostri bigliettini? Quanti anni sono?
Non li voglio contare, mi sembra ieri. Si, quei
bigliettini che ti facevo portare a scuola da
Herda (tutta trecce e lentiggini, antipatica, ma
indispensabile). Così fregavamo tua madre sicura
d’aver tutto sotto controllo e così fregeremo il
Direttore del campo, quel pavone sempre occupato
a fare la ruota.
L’idea mi entusiasma assai. Più giovane? No. Più
vivo, mi fa sentire di sicuro più vivo.
“A.G.”, ricordi, Achtung Grete: bastava questa
sigla per farti capire tutto, per farti essere
puntuale all’appuntamento, per farti strappare
subito quelle poche righe sottraendole alla
vigilanza di tua madre. Scrivo sulla busta la
nostra sigla, le lettere puntate della nostra
gioventù, del nostro tenero amore, certo che
capirai ancora immediatamente.
Mi pare di vederti prenderla con mani tremanti,
emozionata nasconderla in tasca, avviarti
svelta.
E’ vero, in questo memento dovrei proprio
riconoscere a mio padre il diritto di darmi del
rincoglionito.
Ma tu come stai? La tua bronchite? Ti curi? Sei
riuscita a trovare le medicine? Ti prego
scrivimi prestissimo (hai ragione, scusa, lo fai
sempre) ho tanto bisogno di notizie, lo sai, ma
stai attenta a che le tue parole non sembrino
risposte alla presente (talvolta incrociano le
missive).
Ho parlato dei tuoi problemi di salute con
Arthur. Mi ha detto – ma non è stato per niente
facile – che se gli faccio avere il nome delle
tue medicine potrebbe provare a farsi un’idea
delle tue condizioni. Un uomo speciale, ma che
pazienza che ci vuole: sostiene che non è
corretto – proprio così ha detto – fare una
diagnosi senza aver visto il paziente. Si è
convinto, a fatica, solo quando gli ho chiesto
se nel trattamento che ci hanno riservato (a
lui, a me, a te) c’è forse qualcosa di corretto.
E’ giusto che un medico della sua capacità -
che tanto ha studiato, che faceva ricerche di
prim’ordine all’Università – non possa fare, e
così bene, il proprio lavoro? Già, hanno paura
che sporchi la loro razza anche se malata.
Quanto siamo stati stupidi, Grete, a fidarci, a
credere che qui sarebbe stato diverso. Però se
torna comodo delle leggi razziali se ne fregano.
Prima di raggiungerci era internato in un altro
campo (in bass’Italia) e quando il figlio del
Podestà s’è ammalato gravemente al punto che
nessuno sapeva che farci, chi hanno chiamato?
Arthur, naturalmente, perché è meglio un vivo
contaminato (basta non farlo sapere) che un
morto puro.
Fammi avere scritte chiare le medicine che ti
hanno segnato e pure come meglio puoi quello che
ti senti, dove ti fa male, se la sera hai ancora
la febbre. Ho tanta fiducia, come tutti, in
Arthur. Anche il medico del Paese quando viene
per controlli ci si intrattiene lungamente e
parlano fitto fitto. Secondo Ludwing, studente
in medicina arrestato a Parma che mai si perde
un loro dialogo, Arthur dà giudizi su quanto gli
viene sottoposto dal collega (e pure in
italiano, stentato ma italiano).
Ho imparato a convivere col mal di testa che
spesso viene a trovarmi. Pare si tratti di una –
non mi ricordo bene come si dice – una cosa
tipica che capita a chi, come noi, viene privato
della libertà ingiustamente.
Nel Convento ci troviamo abbastanza bene. A
sentire quelli costretti negli altri edifici del
Paese, la nostra è la sistemazione migliore, più
sana. E i Frati, all’inizio tanto preoccupati
per il buon nome del Santuario, ora sono
diventati comprensivi, hanno capito la nostra
disgrazia e apprezzato il nostro rispetto.
Molti civitellesi sono bravi, ma disubbidienti:
non riesco ad odiarci, a considerarci nemici. Fa
bene in un momento così difficile essere
considerati esseri umani normali.
Il Paese non è malaccio – per carità – ma te
l’ho già detto ti senti fuori dal mondo,
sperduto su un cucuzzolo raggiungibile da una
sola strada bianca (che sembra tracciata con la
farina). Ma che freddo. L’inverno passato non
sapevamo più che mettere nella stufa della
camerata, era più il fumo che il caldo. Il
freddo ti entra nelle ossa, te lo porti dentro,
ci vai a dormire. Al Direttore l’abbiamo detto:
l’unica coperta in dotazione non basta, ma sin
qui nessuna risposta. Per fortuna – si fa per
dire – nella camerata siamo in otto, e se di
giorno è un guaio (non sei mai solo neppure per
piangere un po’), di notte almeno il freddo si
sente meno anche se il russare è fortissimo.
I discorsi sono sempre gli stessi: il freddo e
la paura d’essere consegnati ai tedeschi. A
pensarci, pure questi della nuova Repubblica
fatta sul lago, a Salò non scherzano (meglio non
sfigurare con l’alleato). Le cose sono
cambiate, e in peggio.
Le guardie, da sempre umane, tolleranti, hanno
paura pure loro e si comportano perciò in modo
più distaccato, a volte rigido. Discorso a parte
merita Alberto, per lui il titolo di guardiano
sarebbe offensivo: non lo dimenticheremo mai.
Quando c’è stata la possibilità, forse abbiamo
sbagliato a non scappare. Forse. Me lo chiedo
spesso. Facile più a dirsi che a farsi. Se i
fuggitivi vengono ripresi, la Germania li
attende a bocca aperta.
Scappare? Per dove? Con le strade piene di
tedeschi. Nascondersi? Dove? Col rischio di una
rappresaglia alla famiglia che t’ha accolto.
Magari, Grete, son tutte scuse. Se fossi
giovane, e tu in salute, ti avrei già raggiunto
e preso la mano per correre contro il vento. Io
e te. Insieme. Ancora. Come facevamo in riva al
mare.
Mai avrei immaginato di dovermi rallegrare di
non aver avuto figli. Ci sono mancati. Ne
abbiamo parlato e fantasticato tanto, giocando a
scegliere i nomi. Ora ne sono felice.
Felicissimo. Felice di non aver messo al mondo
uomini di razza sbagliata, foglie di una pianta
da estirpare. Felice di non aver contribuito a
riempire i campi di concentramento. Felice di
non aver aperto i loro occhi sulla guerra, sulla
morte, sulle persecuzioni.
Siamo ebrei: questa è la nostra sorte. Siamo
quelli che aspirano a soggiogare il mondo – me
l’ha suggerito Hans. Gli mostrerei il film della
mia vita, altroché, della fatica che sempre ho
fatto, pure da bambino, per mangiare. Quando mai
sono rientrato a casa prima dell’alba? Berlino
si svegliava e pretendeva caldi i suoi giornali.
Solo allora questo sporco tipografo ebreo se ne
tornava a casa: sporco,si, ma d’inchiostro.
Oggi no, non più, se m’avessero arrestato oggi
di certo non mi avrebbero rilasciato e men che
meno lasciato partire per l’Italia. Ma tu, a
proposito, gli amici non li potevi tenere in
Inghilterra? Scherzo, non pretendertela. Anzi
perdonami: dovrei farti coraggio e non riversare
su di te angosce e pene (ma l’ho fatto sempre,
lo sai).
Ci pensi mai a quando giungemmo a Milano? Sono
trascorsi quattro anni, mica stavamo tanto male,
e il tuo vecchio tipografo si è arrangiato
subito. Negli ultimi tempi mi è capitato spesso
di sognare il nostro rifugio precario, la nostra
soffitta sui navigli.
Mi manchi tanto. Mi mancano il tuo sguardo
dolce, le tue parole, il tuo coraggio
soprattutto, proprio quello che gli altri
scambiano per rassegnazione. Vorrei dirti tanto.
Tutto. Tutte le cose belle che non ho mai saputo
dire.
Non ridere ti prego: cerco spesso di sedere
accanto ai più istruiti che parlano tedesco (qui
è un casino di lingue) per rubare qualche bella
parola per te. Non ho mai saputo scrivere, non
fa per me, due righe e una sudata, accadeva già
coi bigliettini che consegnavo a Herda.
Al campo ci sono personaggi importanti, il
segreto è saper ascoltare se vuoi capire di più.
Ma a volte fa molto male. Hans. Hans è il più
istruito, Professore colto e sensibile, fin
quando ce la faccio ascolto, ma certe sue
previsioni catastrofiche mi angosciano: come se
non bastassero il mucchio di guai che già
abbiamo. Un pittore, per ridere, mi ha fatto una
caricatura: dice che sono venuto meglio di come
sono. Abbiamo avuto anche un dentista e ce
n’era davvero bisogno, ma solo per un breve
periodo purtroppo. Werner era così bravo al
punto di costruirsi pure qualche attrezzo del
mestiere, e alla faccia delle leggi razziali ci
venivano pure quelli del Paese (di nascosto si
capisce). Purtroppo è stato trasferito e di
nuovo quando hai mal di denti ti portano fuori,
ma tra la richiesta e la visita fai a tempo a
bucarti il palato.
Io mi comporto bene e mi trovo bene con tutti,
soprattutto con le persone semplici come me. Con
i tedeschi, certo, facciamo più gruppo. Ma noi,
poi, siamo tedeschi? No, siamo apolidi di lingua
tedesca: come se i genitori naturali ti
ripudiassero. E in Italia chi siamo? Internati
ebrei : come se i genitori adottivi ti
abbandonassero.
Dopo essere stati discriminati, umiliati,
depredati, razziati, ora siamo internati (con te
non ci provo neppure, la riflessione non è certo
mia, ma di Hans, che aggiunge pure: speriamo
finisca qui).
Scrivimi presto, prestissimo (lo so che lo fai
sempre, ma stavolta più che mai). Devo farmi
coraggio, devo concludere, non vorrei che la
busta risultasse troppo gonfia (come il mio
cuore) e attrarre l’attenzione di qualche
portalettere zelante in cerca di benemerenze. E
poi ne dovrei avere ancora quattro per
raccontarti tutta la mia vita manco non la
conoscessi.
Dobbiamo stare attenti, Grete. Anche tu sei
internata. Libera, ma internata. Che
sciocchezza. E’ una contraddizione in termini (è
necessario dire di chi è l’osservazione? No,
vero?). Come se non dovessi recarti tutti i
giorni dalle forze dell’ordine per sottoscrivere
il registro delle presenze, come se non
ricevessi ispezioni e controlli. La cosa buona,
nel tuo caso, è lo star sola. Con la tua tosse
secca e persistente, una camerata affollata non
sarebbe l’ideale.
Tante volte m’appoggio al grande abete, fuori, e
con un filo d’erba in bocca ti penso, ti vedo
nella tua cameretta ammobiliata e gioco ad
immaginare l’effetto che ti faranno le mie
parole. Ti vedo seduta, di tanto in tanto pure
sospirare, e guardare fuori, allora anch’io
guardo lontano. Meno male che hai dei bravi
vicini: chi preparerebbe un infuso per
un’internata ebrea in preda alla tosse? Molti
italiani sono così, non tutti.
Stai attenta, in campana, i nazisti sono
agitatissimi, quando vengono al campo mettono
tutto a soqquadro. Sai quanto ci mettono a
deportarci.
E’ ora. Cerco di rinviare, raccontandoti non so
più cosa, ma è veramente ora.
E’ il momento di salutarti, ma anche di dirti
una …cosa che avrei dovuto scrivere subito, ma
al solito non ho avuto il tuo coraggio. Si fa un
gran parlare di trasferimenti al nord, verso
Carpi, dalle parti di Modena. Da te la
situazione com’è? Ci sono trasferimenti? Prego
sempre per te. Speriamo bene.
Mangia, capito? Curati. Curati. Quasi
dimenticavo, distruggi questa lettera come se ci
fosse tua madre pronta a leggerla.
Mi addolora tanto addolorarti, ma secondo
Alberto - l’ha detto con occhi velati - dal
grande campo di concentramento nel modenese
difficilmente sarebbe possibile inviare posta.
Giuro che per la rabbia le morderei e poi le
sputerei, quattro lettere come questa
inutilizzate, no, meglio non pensarci.
Amore mio, se dovesse capitarmi, se dovessi
essere trasferito senza poter più comunicare,
non ci arrenderemo, li fregheremo tutti come
sempre...
Con un bastoncino traccerò sul terreno “A.G”
che il vento s’incaricherà di cancellare.
Tu esci quando spira. Esci subito e con gli
occhi chiusi prendimi la mano e stringila forte.
Quando il vento spira forte.
Tuo, per sempre tuo
Erich
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