Direttore  Responsabile Ludovico RAIMONDI

Collaboratore Vincenzo RAIMONDI

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  I racconti vincitori del V Premio Giammario Sgattoni 2010

Giulianova, 20 Gennaio 2011 -  www.giulianovailbelvedere.it ha promosso la pubblicazione dei racconti vincitori del V Premio Giammario Sgattoni, organizzato dalla Pro Loco di Garrufo di S. Omero, la quale non ne ha avuto la possibilità, come era nella riserva riportata del bando del concorso. Con lo scopo di gratificare, in maniera disinteressata e amichevole, i lavori dei vincitori e di rendere omaggio, nella modestia del nostro portale, alla memoria della figura culturale, professionale ed umana di Giammario Sgattoni, è nata l'idea di pubblicare, con il consenso degli autori, i racconti "Lettera dal campo" di Giuseppe Graziani e "Tu, lasciala andare" di Maria Teresa Barnabei, rispettivamente 2° e 1° classificati. Alla Prof.ssa Barnabei e all'Avv  Graziani va il mio più sentito e sincero ringraziamento per la disponibilità dimostrata verso il sito www.giulianovailbevedere.it, che è onorato di ospitare le loro opere, rivelatrici di grande sensibilità e considerevole spessore umano e professionale. La pubblicazione dei racconti ha cadenza settimanale. Giovedì scorso, 13 gennaio, è stato pubblicato L'anello dell'adolescente del sottoscritto, questa settimana è la volta di "Lettera dal campo" in cui Giuseppe Graziani fa rivivere i sentimenti d'amore come vera arma per sconfiggere l'angoscia e il terrore del periodo più buio della storia contemporanea.(dir)

 
Lettera dal campo
Racconto breve di Giuseppe Graziani
2° classificato al V Premio Giammario Sgattoni 2010 di Garrufo di S. Omero (Te) dal tema: "Una storia d'amore di oggi e di ieri"

 

Lettera dal campo

 

Campo di concentramento di Civitella del Tronto, 10 Aprile ‘44

 

 

 

Mein liebe,

sono contento. E non succedeva da un po’. Oggi Jacob, quello che s’arrangia col fare il barbiere, mi ha confidato una notizia speciale: il Parroco sembrerebbe disposto a spedire qualche lettera, ma non di chiunque, solo di chi si fida. C’è da capirlo.

Di Jacob si fida e Jacob si fida di me e soprattutto della promessa che il prossimo pacco della Croce Rossa sarà suo (per me tratterrò solo qualche sigaretta. Lo so, lo so che fa male, ma fumare mi aiuta).

Finalmente. Ci pensi? Finalmente potrò dischiudere il cuore senza timore d’essere deriso, schernito per via dell’età. Non dire che non dovrei importarmene, mi importa, invece, per forza: la mia non è vergogna – te l’ho già detto – ma desiderio di preservare i sentimenti che impudicamente vengono scrutati, violati e talvolta arrestati come hanno già fatto con il corpo. Ti prego capiscimi.

Fai tanta attenzione, mi raccomando, se malauguratamente scoprissero la cosa metteremmo nei guai delle brave persone.

Questa lettera speciale, infatti, come ogni altra, ti giungerà col timbro “verificato per censura” anche se incredibilmente nessuno l’ha unta con le mani e violentata con gli occhi.

Diavolo d’uno Jacob. Lasciato solo in ufficio per pochi istanti è riuscito a timbrare circa venti buste, timbrava come un forsennato, poi calmo, e con mano ferma, ha ripreso a spuntare i baffi del Direttore.

Forse ne avrò cinque, cinque buste, cinque volte io e te. Soli.

Se penso a tutte le volte che ho preso in giro mio padre mi viene da sorridere, ma poi... da piangere: diceva – ce l’ho ancora nell’orecchio – che la vecchiaia per certi aspetti assomiglia alla fanciullezza, che ci si intenerisce nuovamente e facilmente ci si commuove. Oggi lo capisco senza poterglielo più dire, allora mi pareva un inizio di rincoglionimento.

Rammenti i nostri bigliettini? Quanti anni sono? Non li voglio contare, mi sembra ieri. Si, quei bigliettini che ti facevo portare a scuola da Herda (tutta trecce e lentiggini, antipatica, ma indispensabile). Così fregavamo tua madre sicura d’aver tutto sotto controllo e così fregeremo il Direttore del campo, quel pavone sempre occupato a fare la ruota.

L’idea mi entusiasma assai. Più giovane? No. Più vivo, mi fa sentire di sicuro più vivo.

“A.G.”, ricordi, Achtung Grete: bastava questa sigla per farti capire tutto, per farti essere puntuale all’appuntamento, per farti strappare subito quelle poche righe sottraendole alla vigilanza di tua madre. Scrivo sulla busta la nostra sigla, le lettere puntate della nostra gioventù, del nostro tenero amore, certo che capirai ancora immediatamente.

Mi pare di vederti prenderla con mani tremanti, emozionata nasconderla in tasca, avviarti svelta.

E’ vero, in questo memento dovrei proprio riconoscere a mio padre il diritto di darmi del rincoglionito.

Ma tu come stai? La tua bronchite? Ti curi? Sei riuscita a trovare le medicine? Ti prego scrivimi prestissimo (hai ragione, scusa, lo fai sempre) ho tanto bisogno di notizie, lo sai, ma stai attenta a che le tue parole non sembrino risposte alla presente (talvolta incrociano le missive).

Ho parlato dei tuoi problemi di salute con Arthur. Mi ha detto – ma non è stato per niente facile – che se gli faccio avere il nome delle tue medicine potrebbe provare a farsi un’idea delle tue condizioni. Un uomo speciale, ma che pazienza che ci vuole: sostiene che non è corretto – proprio così ha detto – fare una diagnosi senza aver visto il paziente. Si è convinto, a fatica, solo quando gli ho chiesto se nel trattamento che ci hanno riservato (a lui, a me, a te) c’è forse qualcosa di corretto. E’ giusto che un medico della sua capacità  - che tanto ha studiato, che faceva ricerche di prim’ordine all’Università – non possa fare, e così bene, il proprio lavoro? Già, hanno paura che sporchi la loro razza anche se malata.

Quanto siamo stati stupidi, Grete, a fidarci, a credere che qui sarebbe stato diverso. Però se torna comodo delle leggi razziali se ne fregano. Prima di raggiungerci era internato in un altro campo (in bass’Italia) e quando il figlio del Podestà s’è ammalato gravemente al punto che nessuno sapeva che farci, chi hanno chiamato? Arthur, naturalmente, perché è meglio un vivo contaminato (basta non farlo sapere) che un morto puro.

Fammi avere scritte chiare le medicine che ti hanno segnato e pure come meglio puoi quello che ti senti, dove ti fa male, se la sera hai ancora la febbre. Ho tanta fiducia, come tutti, in Arthur. Anche il medico del Paese quando viene per controlli ci si intrattiene lungamente e parlano fitto fitto. Secondo Ludwing, studente in medicina arrestato a Parma che mai si perde un loro dialogo, Arthur dà giudizi su quanto gli viene sottoposto dal collega (e pure in italiano, stentato ma italiano).

Ho imparato a convivere col mal di testa che spesso viene a trovarmi. Pare si tratti di una – non mi ricordo bene come si dice – una cosa tipica che capita a chi, come noi, viene privato della libertà ingiustamente.

 

Santurio di Santa Maria dei Lumi  Civitella del Tronto:Nel Convento ci troviamo abbastanza bene. A sentire quelli costretti negli altri edifici del Paese, la nostra è la sistemazione migliore, più sana. E i Frati, all’inizio tanto preoccupati per il buon nome del Santuario, ora sono diventati comprensivi, hanno capito la nostra disgrazia e apprezzato il nostro rispetto.

Molti civitellesi sono bravi, ma disubbidienti: non riesco ad odiarci, a considerarci nemici. Fa bene in un momento così difficile essere considerati esseri umani normali.

Il Paese non è malaccio – per carità – ma te l’ho già detto ti senti fuori dal mondo, sperduto su un cucuzzolo raggiungibile da una sola strada bianca (che sembra tracciata con la farina). Ma che freddo. L’inverno passato non sapevamo più che mettere nella stufa della camerata, era più il fumo che il caldo. Il freddo ti entra nelle ossa, te lo porti dentro, ci vai a dormire. Al Direttore l’abbiamo detto: l’unica coperta in dotazione non basta, ma sin qui nessuna risposta. Per fortuna – si fa per dire – nella camerata siamo in otto, e se di giorno è un guaio (non sei mai solo neppure per piangere un po’), di notte almeno il freddo si sente meno anche se  il russare è fortissimo.

I discorsi sono sempre gli stessi: il freddo e la paura d’essere consegnati ai tedeschi. A pensarci,  pure questi della nuova Repubblica fatta sul lago, a Salò non scherzano (meglio non sfigurare con l’alleato).  Le cose sono cambiate, e in peggio.

Le guardie, da sempre umane, tolleranti, hanno paura pure loro e si comportano perciò in modo più distaccato, a volte rigido. Discorso a parte merita Alberto, per lui il titolo di guardiano sarebbe offensivo: non lo dimenticheremo mai.

Quando c’è stata la possibilità, forse abbiamo sbagliato a non scappare. Forse. Me lo chiedo spesso. Facile più a dirsi che a farsi. Se i fuggitivi vengono ripresi, la Germania li attende a bocca aperta.

Scappare? Per dove? Con le strade piene di tedeschi. Nascondersi? Dove? Col rischio di una rappresaglia alla famiglia che t’ha accolto.

Magari, Grete, son tutte scuse. Se fossi giovane, e tu in salute, ti avrei già raggiunto e preso la mano per correre contro il vento. Io e te. Insieme. Ancora. Come facevamo in riva al mare.

Mai avrei immaginato di dovermi rallegrare di non aver avuto figli. Ci sono mancati. Ne abbiamo parlato e fantasticato tanto, giocando a scegliere i nomi. Ora ne sono felice. Felicissimo. Felice di non aver messo al mondo uomini di razza sbagliata, foglie di una pianta da estirpare. Felice di non aver contribuito a riempire i campi di concentramento. Felice di non aver aperto i loro occhi sulla guerra, sulla morte, sulle persecuzioni.

Siamo ebrei: questa è la nostra sorte. Siamo quelli che aspirano a soggiogare il mondo – me l’ha suggerito Hans. Gli mostrerei il film della mia vita, altroché, della fatica che sempre ho fatto, pure da bambino, per mangiare. Quando mai sono rientrato a casa prima dell’alba? Berlino si svegliava e pretendeva caldi i suoi giornali. Solo allora questo sporco tipografo ebreo se ne tornava a casa: sporco,si, ma d’inchiostro.

Oggi no, non più, se m’avessero arrestato oggi di certo non mi avrebbero rilasciato e men che meno lasciato partire per l’Italia. Ma tu, a proposito, gli amici non li potevi tenere in Inghilterra? Scherzo, non pretendertela. Anzi perdonami: dovrei farti coraggio e non riversare su di te angosce e pene (ma l’ho fatto sempre, lo sai).

Ci pensi mai a quando giungemmo a Milano?  Sono trascorsi quattro anni, mica stavamo tanto male, e il tuo vecchio tipografo si è arrangiato subito.  Negli ultimi tempi mi è capitato spesso di sognare il nostro rifugio precario, la nostra soffitta sui navigli.

Mi manchi tanto. Mi mancano il tuo sguardo dolce, le tue parole, il tuo coraggio soprattutto, proprio quello che gli altri scambiano per rassegnazione. Vorrei dirti tanto. Tutto. Tutte le cose belle che non ho mai saputo dire.

Non ridere ti prego: cerco spesso di sedere accanto ai più istruiti che parlano tedesco (qui è un casino di lingue) per rubare qualche bella parola per te. Non ho mai saputo scrivere, non fa per me, due righe e una sudata, accadeva già coi bigliettini che consegnavo a Herda.

 

Al campo ci sono personaggi importanti, il segreto è saper ascoltare se vuoi capire di più. Ma a volte fa molto male. Hans. Hans è il più istruito, Professore colto e sensibile, fin quando ce la faccio ascolto, ma certe sue previsioni catastrofiche mi angosciano: come se non bastassero il mucchio di guai che già abbiamo. Un pittore, per ridere, mi ha fatto una caricatura: dice che sono venuto meglio di come sono. Abbiamo avuto anche un  dentista e ce n’era davvero bisogno, ma solo per un breve periodo purtroppo. Werner era così bravo al punto di costruirsi pure qualche attrezzo del mestiere, e alla faccia delle leggi razziali ci venivano pure quelli del Paese (di nascosto si capisce). Purtroppo è stato trasferito e di nuovo quando hai mal di denti ti  portano fuori, ma tra la richiesta e la visita fai a tempo a bucarti il palato.

Io mi comporto bene e mi trovo bene con tutti, soprattutto con le persone semplici come me. Con i tedeschi, certo, facciamo più gruppo. Ma noi, poi, siamo tedeschi? No, siamo apolidi di lingua tedesca: come se i genitori naturali ti ripudiassero. E in Italia chi siamo? Internati ebrei : come se i genitori adottivi ti abbandonassero.

Dopo essere stati discriminati, umiliati, depredati, razziati, ora siamo internati (con te non ci provo neppure, la riflessione non è certo mia, ma di Hans, che aggiunge pure: speriamo finisca qui).

Scrivimi presto, prestissimo (lo so che lo fai sempre, ma stavolta più che mai). Devo farmi coraggio, devo concludere, non vorrei che la busta risultasse troppo gonfia (come il mio cuore) e attrarre l’attenzione di qualche portalettere zelante in cerca di benemerenze. E poi ne dovrei avere ancora quattro per raccontarti tutta la mia vita manco non la conoscessi.

Dobbiamo stare attenti, Grete. Anche tu sei internata. Libera, ma internata. Che sciocchezza. E’ una contraddizione in termini (è necessario dire di chi è l’osservazione? No, vero?). Come se non dovessi recarti tutti i giorni dalle forze dell’ordine per sottoscrivere il registro delle presenze, come se non ricevessi ispezioni e controlli. La cosa buona, nel tuo caso, è lo star sola. Con la tua tosse secca e persistente, una camerata affollata non sarebbe l’ideale.

Tante volte m’appoggio al grande abete, fuori, e con un filo d’erba in bocca ti penso, ti vedo nella tua cameretta ammobiliata e gioco ad immaginare l’effetto che ti faranno le mie parole. Ti vedo seduta, di tanto in tanto pure sospirare, e guardare fuori, allora anch’io guardo lontano. Meno male che hai dei bravi vicini: chi preparerebbe un infuso per un’internata ebrea in preda alla tosse? Molti italiani sono così, non tutti.

Stai attenta, in campana, i nazisti sono agitatissimi, quando vengono al campo mettono tutto a soqquadro. Sai quanto ci mettono a deportarci.

E’ ora. Cerco di rinviare, raccontandoti non so più cosa, ma è veramente ora.

E’ il momento di salutarti, ma anche di dirti una …cosa che avrei dovuto scrivere subito, ma al solito non ho avuto il tuo coraggio. Si fa un gran parlare di trasferimenti al nord, verso Carpi, dalle parti di Modena. Da te la situazione com’è? Ci sono trasferimenti? Prego sempre per te. Speriamo bene.

Mangia, capito? Curati. Curati. Quasi dimenticavo, distruggi questa lettera come se ci fosse tua madre pronta a leggerla.

Mi addolora tanto addolorarti, ma secondo Alberto - l’ha detto con occhi velati - dal grande campo di concentramento nel modenese difficilmente sarebbe possibile inviare posta. Giuro che per la rabbia le morderei e poi le sputerei, quattro lettere come questa inutilizzate, no, meglio non pensarci.

Amore mio, se dovesse capitarmi, se dovessi essere trasferito senza poter più comunicare, non ci arrenderemo, li fregheremo tutti come sempre...

Con  un bastoncino traccerò sul terreno “A.G” che il vento s’incaricherà di cancellare.

Tu esci quando spira. Esci subito e con gli occhi chiusi prendimi la mano e stringila forte. Quando il vento spira forte.

Tuo, per sempre tuo

Erich

 

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Giuseppe Graziani

Civitellese da molte generazioni, è nato nell’aprile del ’55.

Formatosi a studi giuridici, dopo esperienze diverse, è tornato a vivere nel proprio Paese. A Civitella del Tronto, alla sua storia, ha dedicato impegno e passione con ricerche e pubblicazioni.

E’ autore di commedie vernacolari premiate e rappresentate.

Da più di un decennio si applica allo studio del fenomeno di cui all’internamento civile fascista partecipando a conferenze e convegni.

Ha collaborato e collabora con periodici nazionali e locali.

 

  Testata giornalistica iscritta al n° 519 del 22/09/2004 del Registro della Stampa del tribunale di Teramo