TERAMO, 14.4.2014 -
Mercoledì 16 aprile 2014
ore 17,45
presso la Sala "Prospettiva Persona",
nuovo appuntamento del Salotto Culturale XIV
edizione (patrocini: Fondazione Tercas,
Ufficio cultura della Diocesi Teramo), in Via N.
Palma, 33 – Teramo,
con
una conferenza sul tema
"
La nostalgia di Dio in Cesare Pavese"
Relatore d'eccezione l'arcivescovo emerito de
L'Aquila
mons. Giuseppe Molinari, autore del libro
su Pavese
«O Tu, abbi pietà» La ricerca religiosa di
Cesare Pavese, Ancora 2006.
La cittadinanza è invitata
Approfondimento
Cesare Pavese ((Santo Stefano Belbo, 9 settembre
1908 - Torino, 27 agosto 1950)
"Autore pilastro del nostro Novecento, narratore
senza arabeschi ombelicali. «Cesare Pavese -
spiega Lorenzo Mondo, l'ex vicedirettore de La
Stampa che da una vita lo studia - è uno
scrittore religioso. E accanto a questo, o
proprio per questo, è profondamente calato nella
realtà. Non scrive per sé, perfora la crosta
della realtà e ci porta in profondità». Insomma,
sgombriamo subito il campo dagli equivoci: la
religiosità è quella di un uomo che fa a pugni
con le cose e non ci conduce in regioni
rarefatte o remote, ma dove i nervi scoperti
della nostra coscienza vengono toccati uno a
uno. .. Il suo lavoro, per così dire, di
setaccio esistenziale è straordinario: Pavese ci
conduce alle porte del destino, quello personale
di ciascuno, e quello corale di tutti noi,
scruta con la lente della sua scrittura l'anima
umana, le sue infinite aspirazioni, le sue
domande irriducibili, le sue in-certezze. Il
tutto con una prosa, e talvolta una poesia, che
è insieme epica e quotidiana, tesa al cielo e
impastata di terra. Prendiamo il finale de La
casa in collina (romanzo in cui il protagonista,
Corrado, scappa da Torino, sconvolta dai
bombardamenti, si rifugia sulle colline, poi
torna al paese natale nelle Langhe).
Quell'immagine terribile dell'Italia lacerata
dalla guerra civile, dal disastro seguito all'8
settembre. «Lo scrittore è fra i primi ad
affrontare il tema della guerra civile e lo fa
da par suo», riprende Mondo. «"Ora che ho visto
cos'è guerra, cos'è guerra civile, so che tutti,
se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: e
dei caduti che facciamo? Perché sono morti? Io
non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno.
Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo
sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la
guerra è finita davvero". Queste parole
disegnano una prospettiva che sfugge alle
letture ideologiche».
Alla terra, la terra che l'ha generato, Pavese
chiede la soluzione di quell'enigma che è la
vita. La domanda, che torna coniugata con tutte
le parole chiave del suo vocabolario così
esistenziale, rimane conficcata dentro di lui.
«C'è in proposito un episodio illuminante -
spiega Mondo -: Rosa Calzecchi Onesti, che sta
lavorando alla traduzione dell'Iliade, legge
Prima che il gallo canti, il dittico che
contiene La casa in collina e il Carcere. E con
intuito intravede ne La casa in collina un
tormento religioso e gli augura di superarlo.
Pavese le risponde così: "Quanto alla soluzione
che mi augura di trovare, io credo che
difficilmente andrò oltre il capitolo XV del
Gallo. Comunque non si è sbagliata sentendo che
qui è il punto infiammato, il locus di tutta la
mia coscienza». In effetti in quel capitolo
Corrado entra in chiesa. E definisce
quell'istante uno «sgorgo di gioia». «Pregare,
entrare in chiesa - dice Pavese - è vivere un
istante di pace, rinascere in un mondo senza
sangue». «Sicuramente Pavese ha avuto in quel
periodo, dopo l'8 settembre, una crisi
religiosa», aggiunge Mondo. «Padre Giovanni
Baravalle, il padre Felice de La casa in
collina, racconta di averlo confessato e
comunicato il 1° febbraio 1944». Lui, ne Il
mestiere di vivere, annota: «Ci si umilia nel
chiedere una grazia e si scopre l'intima
dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica
ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto goder
sempre questo sgorgo di divinità». Ma sappiamo
anche che quella pace, conquistata in quella
chiesa, andrà in pezzi. Pavese vince il premio
Strega, diventa famoso, e si ritrova solo.
Ancora più solo. Nell'estate del 1950, dopo
l'ennesima delusione amorosa, dopo essersi
illuso di poter costruire un legame con
Constance Dowling (la "C." della dedica), la
situazione precipita. Chiude il diario, Il
mestiere di vivere, con un'ultima rabbiosa
invocazione. «Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?».
Il 27 agosto 1950, domenica, si uccide a Torino
con il sonnifero nella stanza 43 dell'Hotel
Roma. Lascia un messaggio sobrio, majakovskiano:
«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va
bene? non fate troppi pettegolezzi». Sullo
scrittoio c'è una copia dei Dialoghi con Leucò
(dialoghi mitologico-filosofici). «In questo
libro - è il pensiero di Mondo - affiora tutto
il Pavese religioso, quello che non si stanca di
indagare sul senso della vita. In uno dei
vertici, il dialogo intitolato agli Dei, il
divino viene proposto come un'esperienza, come
un incontro che l'uomo moderno ha perduto, anche
se "davanti al disagio, nell'ora incerta", ne
avverte la nostalgia». Dunque è giusto chiedersi
perché proprio quel libro abbia accompagnato
Pavese nell'ultimo viaggio. «Credo che quella
scelta non sia stata casuale», risponde Mondo.
«Pavese sentiva che quel testo racchiudeva il
senso più profondo della sua esistenza e della
sua arte. Chissà, forse quella notte, l'ultima
della sua breve vita, ha trovato la forza di
sfogliarlo, come viatico e breviario,
testimonianza della sola verità che gli era
stata concessa».
Liberamente tratto da
http://carabelta.free.fr/letter/pavese.php
La fecondità del dolore
Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il
dolore ci ha fatto inginocchiare. Al punto che
la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di
gioia e di gratitudine, di aspettazione" La
massima sventura è la solitudine, tant'è vero
che il supremo conforto - la religione -
consiste nel trovare una compagnia che non
inganna.
La preghiera è uno sfogo come con un amico. Sto
leggendo il libro intenso che un vescovo,
Giuseppe Molinari, ha scritto sulla ricerca
religiosa di Cesare Pavese ("O Tu, abbi pietà",
ed. Ancora): ne rimango coinvolto perché ho
sempre amato questo scrittore dall'esistenza
approdata al tragico estuario del suicidio, ma
pervasa da un forte anelito verso il mistero e
il divino.
Scelgo alcune citazioni incastonate nel volume
dell'arcivescovo dell'Aquila: sono conosciute ma
meritano di essere riproposte. Due sono le
realtà prese di mira; forse sono solo due volti
antitetici ma complementari della stessa
esperienza umana. Da un lato c'è l'amarezza
della solitudine, una sorta di prigione che
tanti non riescono a varcare, anche perché al di
là non c"è nessuna mano e nessuna presenza.
Per questo, Pavese scriveva che «solo la carità
è rispettabile. Cristo e Dostoevskij, tutto il
resto sono balle». Anche quel suo celebre verso:
«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi» era
l"estrema attesa di uno sguardo d"amore, sguardo
che purtroppo in quel caldo giorno d"agosto del
1950, il giorno del suicidio, gli è mancato. Ma,
d'altro lato, c'è un profilo sorprendente che la
sofferenza rivela ed è ciò che lo scrittore
esprime con un"immagine forte, «lo sgorgo di
divinità». Il dolore è come uno strato di terra
e di pietrisco che ha sotto il fremito e la
pressione dell'acqua: basta saper attendere con
coraggio, ed ecco erompere la luce, la vita e
Dio stesso.
Liberamente tratto da "Avvenire" 13/09/2006. |