Indianapolis,
6.12.2015 - E’ bastato un rapido ricordo
inviatomi dal valente collega John Chuhran, di
New Rochelle, capace di risvegliare tempi,
situazioni, storia delle auto da corsa
americane, la Indy Car, categoria tutt’ora attiva,
che cerchiamo di rievocare, a volo pindarico. E’
un volume di pagine degne dell’alloro
conquistato da piloti che il tempo non sa e può
dimenticare.
Furono i
Mario Andretti, A.J.Foyt, i fratelli Unser, Rick
Mears, Gordon Johncock, Tom Sneva, Nigel Mansel,
Emerson Fittipaldi, Paul Tracy e tanti altri,
viventi nel palmares sportivo di Indianapolis,
il maestoso Colosseo d’acciaio che annualmente
chiama a raccolta il meglio della serie, che
rimane fredda per colpa della non curanza di un
pubblico lamentoso, di proprietari di macchine
sempre più costose ma bisognose delle impensate,
profonde operazioni tecniche, con l’affitto di
propulsori, di sponsor e di “nuovi” piloti.
Qualche
pilota e proprietario di macchina pianse
allorchè il mitico turbo charger che aveva
velocità da offrire abbandonava l’agone per far
posto a modesti modelli che lentamente si son
ridotti a due soli rappresentanti, Chevrolet e
Honda, mentre la finanza ha smussato al
massimo il numero di “patron” di squadre come
Chip Ganassi, Roger Penske, Michael Andretti e
Bobby Rahal che, regolarmente, appaiono nelle 16
piste di categoria.
A proposito
va ricordato un nome molto noto, George Bignotti,
un valente tecnico italo americano, il non plus
ultra della meccanica che deteneva il record
delle vittorie grazie al suo magico intervento
al turbo charger della Indy car.
”Sì -
afferma Chuhran - la Indy Car è retrocessa
fortemente ed è un peccato, poichè la categoria
mostrava valore e coraggio. Colpa della finanza,
che frena un “abitué” sportivo a ridurre la
spesa per portare alla corsa moglie e figlio, e
di conseguenza si notano buchi nelle sedie di
tribuna divenute “milionarie”, mentre la
categoria perde il mordente che scatenava una
trentina di audaci, mano santa della serie.
Come poteva
accusare il "Grande Mario" (Andretti), padre spirituale
della categoria, il quale premia la posizione
della serie con un posto meritevole per tutti i
sacrifici compiuti per restare a galla dopo
l’uscita di Tony George, “La Indy è rimasta come
la più vecchia serie autoracing al mondo che pur
con contrattempi, tiene alto il suo valore”. E
Piedone aggiunge: ”La Indy corre e lotta come
le altre categorie (vedi F.1) non sono centinaia
i grandi campioni, ma nel gruppo gareggiano tra
i primi cinque, ovvero i più ricchi, più
seguiti, ed anche più fortunati”.
Da Mario
volevamo conoscere se veramente la Indy car
merita un “requiem” come vari lettori
asseriscono.
“Non sarei
capace di usare quel termine, i costi aumentano,
la vita aumenta e le vetture hanno
bisogno di merce fresca, anche quella
esageratamente esosa”.
Auguriamo
Buon Natale alla famiglia Andretti che non
conosce la parola “pensionati” e “ ritirata”. La
domenica, prima della gara, vedere Mario guidare
una biposto, come fosse a Indianapolis, mandando
in visibilio la folla, è veramente uno
spettacolo “divino.”
Auguri
Marione!
Da John Chuhran vorremmo sentirci dire come
considera lo stato degli ovali attuali. “Per
me, sono la mano santa della serie, alcune di
recente costruzione, come Boston e Detroit, che
si allineano con Pocono, Phoenix, Michigan ed
altre di valore, come la regina delle piste Usa:
Long Beach”.
Già, la
pista cittadina della California che Jerry
Forsythe acquistò per 15 anni, con rinnovo, che
in Aprile richiama migliaia di spettatori.
A proposito
del magnate di Wheeling (Illinois) va detto che
la serie Indy ha vissuto momenti di gloria e
valore allorchè egli dava vita alla nota Champ Car, acquistando nel 2004 tra l’altro ottimi
campi e mettendo in azione una competizione
avvincente dal nome, appunto, di Champ Car. E rapidamente
sturò l’acquisto di ovali nazionali ed europei,
come il Messico, che rianimarono l’attività
automobilistica languente.
Ma la
pazienza del ricco industriale di Wheeling non
resistette alla nullità del figlio del creatore del famoso ovale di Indianapolis, il
quale finiva per fare da meccanico al figlio che
gareggia tutt’ora nella serie.
Disgustato,
dal canto suo, Forsythe dopo otto anni di guida
della Champ car – da lui creata- lasciò per
proseguire nella sua colossale industria e
agricoltura (vigne di
vini
pregiati di Napa Valle, California; ndc).
Usque
tandem! è il caso di concludere. I bolidi
continueranno a girare su piste, ormai schiavi
del tempo, e nel 2016 i soliti protagonisti
tenteranno la fortuna!
Richiesto
un parere sul non florido stato della categoria
americana, Jerry Forsythe commentava: “E’
doveroso superare, considerate le condizioni
finanziarie, la mancanza di sponsor, che spesso
lasciano sul lastrico ottimi piloti, i costi in
continua avanzata, vien fatto di dire: buona
fortuna a tutti”.
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