GIULIANOVA,
30.4.2015
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Sabato 18 aprile scorso, a Giulianova Alta, Franco Tancredi
è stato l'ospite d'onore del convegno "Il calcio giovanile
dal passato al futuro", organizzato con grande successo
dall'Asd Giulianova Calcio, già "Giuliesi per sempre", al
fianco di Nicola Tribuiani, il suo primo maestro, e di
Francesco Giorgini, Ferdinando Ruffini e Ivo Iaconi, con i
quali condivide la provenienza dal settore giovanile del
Giulianova che tanti talenti ha regalato al calcio italiano.
Tancredi, della fucina, rappresenta sicuramente l'elemento
di spicco avendo raggiunto l'apice nella Roma dello scudetto
1983 e nella Nazionale di Bearzot alle Olimpiadi '84 e ai
Mondiali del Messico '86. Innegabilmente il più grande
orgoglio della città sia da giocatore che da allenatore.
Emozionanti la clip e la sequenza di immagini che, nel
convegno, hanno ripercorso la luminosa carriera del portiere
dal Nagc del Giulianova alla maglia azzurra, e la targa che
il presidente di "Giuliesi per sempre" Alfredo Barnabei gli
ha donato con scritta "Grazie di averci resi orgogliosi
della tua splendida carriera e di essere uno dei Giuliesi
per sempre". Tancredi, quando può, torna con piacere
nella sua Giulianova da Roma, dove vive, e abbiamo colto
l'occasione di avvicinarlo per un tuffo fra aneddoti e
memoria storica. Non basterebbero giorni di chiacchierata
per riempire le pagine della storia umana e professionale
del portiere, diventato una bandiera della Roma. Nato il 10
gennaio 1955 dietro al Rubens Fadini, Tancredi ha esordito a
soli 17 anni in prima squadra, nel Giulianova e a 18 anni ne
era già titolare in serie C.
Una carriera precoce e luminosa
che si può sintetizzare nella risposta data a un bambino che
gli ha chiesto un consiglio su come diventare un bravo
portiere:
«Se
ti divertirai, se sarai corretto con gli altri e onesto con
te stesso, diventerai un grande portiere».
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Allora, Tancredi, come è andata nella realtà?
«Sono
stato molto fortunato. Ho fatto parte di un progetto
incredibile iniziato qualche anno prima e forse in quel
momento all'apice della sua realizzazione, all'epoca del
presidente Tiberio Orsini, del suo vice Pierino Stacchiotti
e dell'allenatore Nicola Tribuiani - ricorda Tancredi,
nella foto con il suo "maestro" -. Era un percorso che
partiva dal settore giovanile. Quello di Giulianova è stato
fra i più importanti d'Italia e ha sfornato fior di
giocatori nel panorama nazionale. Si puntava molto sui
giovani ma attorno a uno zoccolo duro di giocatori esperti a
farne da guida. Basti pensare ai vari Giorgini o al
compianto Vernisi. Io sono stato fortunato a farne parte. E
pensare che da piccolo ero un'ala! Fui trasformato in
portiere da un'intuizione proprio di Tribuiani».
- Si
parla molto di giovani in Italia, a volte non sono così
bravi, altre non così pronti. Come erano invece i giovani
negli anni '70?
«Eravamo
ragazzi affamati. Non avevamo quasi nulla, solo lo sport, il
campetto dove giocare a calcio tutto il giorno o il muretto
dove imparare a giocare a tennis. Il calcio era lo sfogo per
eccellenza, ci divertivamo e avevamo tanta, ma tanta
passione. Oggi i ragazzi hanno tutto, tranne questa fame. E'
anche vero che le società dovrebbero credere di più nei
giovani, puntando su istruttori anche più preparati e
qualificati nel settore rispetto agli stessi allenatori di
prima squadra».
- Dal
Giulianova al Milan, poi il Rimini e il grande amore con la
Roma.
«Fui
prelevato dal Milan, dove in campionato non giocai, poi fui
mandato in prestito al Rimini, neopromossa in serie B. Fu un
anno importante, ho fatto tutto il giusto percorso e la
gavetta, giocando in tutte le categorie. Poi la Roma, con
cui mi sono legato 14 anni da giocatore e un ventennio circa
da allenatore. Ancora oggi vivo a Roma. Sono stato fortunato
a fare tutti i giusti percorsi, forse anche anticipando un
po' i tempi».
- Non
fu facile lasciare Giulianova così giovane, vero?
«Fu
davvero dura. Da una parte ero contento di realizzare uno
dei miei sogni, andare al Milan, la squadra per la quale
tifavo, e giocare con il mio idolo, Rivera. Dall'altra
avevamo appena vinto, con il Giulianova, il campionato
Juniores contro l'Udinese. Ero sceso di categoria dalla
prima squadra insieme ad altri compagni per disputare la
finale. Eravamo contentissimi, ma un velo di tristezza mi
sfiorava, sapendo che avrei dovuto lasciare tutto, la mia
città, gli amici, la famiglia».
- Un
amore di una vita, tuttavia, l'ha accompagnato per tutto il
viaggio...
«Ero
fidanzato con Daniela, mia moglie. Mi ha seguito sempre, poi
sono arrivate le mie due figlie. Le ho coinvolte sempre, ho
portato il lavoro a casa, perchè per me scegliere insieme a
loro è stato sempre importante e la loro presenza è stata,
ed è ancora, determinante in tutta la mia carriera e la mia
vita».
- A
Roma l'hanno amato, lo amano ancora. Ne è stato una bandiera
(288 presenze totali, di cui 258 consecutive: meglio di lui
solo un certo Dino Zoff nella storia), ma l'hanno sempre
ritenuto un antidivo. Cosa dice in proposito Tancredi?
«Che
sono anche timido , una specie di orso. E' vero, ho sempre
preferito lavorare sodo in campo e rifugiarmi sempre in
famiglia, lontano dalle luci della ribalta. Non facevo vita
mondana, nè andavo in vacanza insieme con gli altri giocatori. E'
capitato qualche volta, ma se sapevo che
in un posto c'erano altri
giocatori, non andavo. Non era per cattiveria o
altro. Semplicemente volevo staccare la spina dal calcio e
dedicarmi ai miei cari quando ne avevo l'occasione. A Roma
mi sono sentito sempre amato, i tifosi mi hanno sempre
apprezzato e viceversa. Forse proprio per il mio essere
rimasto sempre umile e una persona perbene che ci siamo
trovati sempre».
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E diciamo anche che ha vinto a Roma uno scudetto e 4 Coppe
Italia, impresa non facile nella capitale...
«Sento
dire spesso che a Roma sia difficile vincere per via
dell'ambiente, ma non è così. I tifosi sono molto attaccati
alla società e alla maglia, ma del resto c'è sempre della
pressione quando si punta al massimo, è così ovunque si
provi a vincere. Io, ripeto, sono stato fortunato, ho
giocato nella Roma di Viola alla presidenza e di Liedholm in
panchina, due padri per me. Ho vissuto gli anni forse
migliori della Roma. Hanno avuto il coraggio di puntare su
di me e si stava svolgendo un lavoro esemplare sulla
squadra. Avremmo potuto vincere forse di più, tanto che è
ancora viva, e brucia, la sconfitta ai rigori con il
Liverpool nella finale della Coppa Campioni. Quando si
incastrano bene determinati elementi si può vincere, anche a
Roma. L'importante è che ognuno faccia il suo senza invadere
i compiti altrui: i tifosi devono fare i tifosi, la società
la società, l'allenatore deve allenare e così via. La
pressione la devi mettere in conto, se non la si sopporta
non si può giocare per vincere a certi livelli».
- Ha
vinto a Roma, sia da giocatore che da allenatore, poi
appunto nella Juventus e nel Real Madrid seguendo Fabio
Capello come allenatore dei portieri.
«Fabio
è stato fondamentale per la mia carriera da preparatore dei
portieri. Ho avuto il privilegio di allenare i migliori
portieri del mondo nelle tre fra le piazze più importanti.
Avevo allenato nelle giovanili della Roma, dove si stava
facendo un ottimo lavoro con Bruno Conti, sono usciti
diversi talenti, da Pellizzotti a Totti, a De Rossi, Cerci,
Curci per citarne alcuni. Se si lavora con professionalità e
passione si possono ottenere grandi risultati».
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Avrebbe forse meritato maggiore considerazione in Nazionale.
Non è un mistero la delusione di Messico '86, quando Bearzot
le preferì Galli all'ultimo momento...
«Non
posso nasconderla. Venivo da un paio di stagioni di alto
livello, stavo giocando bene e mi sentivo al massimo. Prima
del mondiale avevo giocato quasi sempre titolare, al massimo
con Galli si faceva un tempo ciascuno. Al Mondiale il cittì
scelse lui come titolare, un po' a sorpresa. Ancora oggi
rispetto la sua scelta, in quanto tale, da professionista e
da uomo, ma continuo a non capirla. Con Galli invece c'è
stato sempre grande rispetto e ci siamo aiutati molto a
vicenda».
- Ha
allenato tanti portieri, chi sono i migliori?
«Direi
Buffon, ancora oggi il migliore portiere del mondo insieme
al tedesco Neuer, e poi Casillas, straordinario esempio di
umiltà e professionalità. Al terzo gradino metterei Giovanni
Cervone, altro gran talento».
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Molti si chiedono il perchè dell'interruzione del rapporto
con Capello con il suo rifiuto di seguirlo nella nazionale
russa. Cosa è accaduto?
«Premetto
che con Fabio ho un grandissimo rapporto, a lui devo tutto
come tecnico, ma preferisco
lavorare sul campo quotidianamente, quindi con un club.
L'esperienza con l'Inghilterra è stata il massimo,
bellissima, ma il lavoro
sul campo
è limitato solo a determinati periodi».
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Ritorno nella Roma di Luis Enrique. Anno da dimenticare,
anche perchè condito con il suo allontanamento?
«Questa,
ammetto, è una ferita ancora aperta. Ero tornato a Roma come
preparatore dei portieri, mi aveva voluto Baldini. Ma
proprio con il suo allontanamento è stata decisa la stessa
sorte per il sottoscritto».
- Se
le dico una data 30 maggio 1984?
«Ancora
oggi non riesco a rivedere quella partita, la finale di
Coppa Campioni a Roma. Una delusione ancora viva in me e
penso in ognuno di noi. Eravamo un gruppo eccezionale,
all'apice della carriera, ma vicini alla trentina e alla
fine di un ciclo. Stavamo giocando il miglior calcio in
assoluto, migliore persino dell'anno precedente, quello
dello scudetto. Il Liverpool segnò su errore dell'arbitro,
che non fu all'altezza di una finale di quel calibro. Ai
rigori non mi riuscì il miracolo. Avevo studiato in
videocassetta il loro modo di tirare, ma non capii che loro
avevano intuito questo e tirarono sempre dalla parte opposta
alle loro abitudini. E' pur vero però che la formazione
inglese era fortissima ed era alla sua massima espressione,
tant'è che l'anno seguente centrò nuovamente la finale in
quella triste partita dell'Heysel contro la Juventus».
- Una
vita nel calcio, tantissimi campioni incrociati ed allenati,
fra cui bandiere come Totti e Del Piero, passando per Raul o
Ibrahimovic...
«Parliamo
di giocatori unici, fuoriclasse assoluti. Con Rivera, credo
che Totti sia il miglior giocatore italiano di sempre, senza
offendere nessuno. L'ho visto crescere e ne sono affezionato
più di altri. Del Piero aveva una classe immensa, una
professionalità unica ed è una persona davvero squisita».
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Tancredi oggi è anche nonno, quasi a tempo pieno, torna
spesso nella sua Giulianova, dai familiari e dagli amici di
sempre. E' un addio al calcio?
«Assolutamente
no. Anzi, colgo l'occasione per ribadire che sono pronto a
tornare all'opera, carico, disponibile e fisicamente
integro, quindi chiunque voglia Tancredi nello staff sappia
che è qui, più motivato che mai».
(foto di
Maurizio Verdecchia) |