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Attualità/Cultura
  I racconti vincitori del V Premio Giammario Sgattoni 2010

Giulianova, 27 Gennaio 2011 - www.giulianovailbelvedere.it ha promosso la pubblicazione dei racconti vincitori del V Premio Giammario Sgattoni, organizzato dalla Pro Loco di Garrufo di S. Omero, la quale non ne ha avuto la possibilità, come era nella riserva riportata del bando del concorso. Con lo scopo di gratificare, in maniera disinteressata e amichevole, i lavori dei vincitori e di rendere omaggio, nella modestia del nostro portale, alla memoria della figura culturale, professionale ed umana di Giammario Sgattoni, è nata l'idea di pubblicare, con il consenso degli autori, i racconti "Lettera dal campo" di Giuseppe Graziani e "Tu, lasciala andare" di Maria Teresa Barnabei, rispettivamente 2° e 1° classificati. Alla Prof.ssa Barnabei e all'Avv  Graziani va il mio più sentito e sincero ringraziamento per la disponibilità dimostrata verso il sito www.giulianovailbevedere.it, che è onorato di ospitare le loro opere, rivelatrici di grande sensibilità e considerevole spessore umano e professionale. Giovedì 13 gennaio, è stato pubblicato L'anello dell'adolescente del sottoscritto, Giovedì 20 è stata la volta di "Lettera dal campo" di Giuseppe Graziani. Per ultimo, ma in quanto primo classificato, pubblichiamo "Tu, lasciala andare" ,

che rivela la sensibilità e la delicatezza della persona e l'eleganza stilistica della scrittrice, meritevoli dei riconoscimenti che arridono alla Signora Barnabei. A Lei una dedica sincera che il suo racconto ci ha ispirato:

E imparai, con umiltà e fatica, ma imparai quello che dovevo fare, e che sarebbe stato ovvio per un bambino: la vita non è altro che un susseguirsi di tante piccole vite, vissute un giorno alla volta. Si dovrebbe trascorrere ogni giorno cercando la bellezza nei fiori e nella poesia e parlando con gli animali. E nulla può essere migliore di un giorno colmo di sogni e di tramonti e di brezze leggere. Imparai soprattutto che la vita è sedere su una panchina sulla riva di un fiume antico, con la mia mano posata sul suo ginocchio e a volte, nei momenti più dolci, innamorarmi di nuovo.

-- Nicholas Sparks

dal libro "Le pagine della nostra vita" di Nicholas Sparks

 

Tu, lasciala andare
Racconto breve di Maria Teresa Barnabei
1° classificato al V Premio Giammario Sgattoni 2010 di Garrufo di S. Omero (Te) dal tema: "Una storia d'amore di oggi e di ieri"

 

 

 

TU, LASCIALA ANDARE

 

 

A primo colpo non si riusciva mai a trovarlo. Ogni volta bisognava fare il giro: la cucina, le stanze (una sopra all’altra in quella specie di colombaia che era la casa dei nonni) e la lavanderia, la stalla, il fondaco per risalire poi in quella soffitta grande, polverosa, ingombra di oggetti e di ricordi. Alla fine ci si affacciava alle finestre per scrutare dentro la vigna  e l’orto sempre con il cuore in gola per la paura di trovarlo stramazzato. Due infarti a distanza di due anni, non erano mica uno scherzo! tanto più che dopo la morte della moglie aveva voluto a tutti costi continuare a vivere nella vecchia casa. Da solo.

Comunque, spesso e volentieri, lo trovavano proprio lì, tra le sue piante. Magari curvo sulle aiuole dei fagioli o, addirittura, avvinghiato su una scaletta a una pianta di olivo per la potatura. I rimproveri di figli e nipoti non erano mancati. Scomposti e disperati come quelli delle numerose figlie o pacati ma imperiosi da parte di zio Michele. Recriminazioni e minacce si spegnevano però come onde sul bagnasciuga contro il sorriso celeste di quegli occhi larghi e sognanti che avevano sempre reso nonno Guido un uomo affascinante. Da giovane e da vecchio. Era con quegli occhi che, ai suoi tempi, aveva stregato nonna Rosa.

La figlia del fattore alta e snella con una testolina nera sopra un corpo sottile ma vibrante come un albero di pesco a primavera e, per di più, come figlia unica di un fattore accorto e un tantino spregiudicato, dotata del ricco patrimonio di terre e di case accumulate sulla rovina dei baroni Striminio. Gli antichi padroni di Girolamo, quelli che sui tavoli di gioco e nei bordelli avevano buttato al vento tra debiti e ipoteche una fortuna. Che quel giovanotto svelto e spensierato ma povero in canna, nonostante il suo diploma di perito agrario conquistato  più per l’amore alla terra che per disponibilità famigliari, fosse riuscito (e senza troppo impegno e fatica) ad entrare come genero nel villa di padron Girolamo rodeva a più di un possidente del paese. E dire che qualcuno aveva già cominciato a intavolare trattative di matrimonio col fattore per allargare le proprietà e rafforzare le famiglie! Ma con Rosa non c’era stato niente da fare. Capricciosa come figlia unica e determinata come il padre quel matrimonio se l’era conquistato facendo capitolare ogni resistenza. Alla fine, aveva pensato  il vecchio, avere un agrimensore in casa poteva essere una sicurezza per il patrimonio. Si era, però , dovuto presto accorgere  che come aiuto per il mantenimento e l’accrescimento delle proprietà quel genero proprio non riusciva a funzionare. Stava sempre tra filari e colline a osservare, studiare e quasi accarezzare le piante e di affari  non ne voleva sapere. E quando finiva di stare sulla terra, sempre in casa intorno ai figli e alla moglie che intanto gli scodellava ogni anno un marmocchio. Tutti belli e dritti, come la madre, in verità, ma solo uno, Micheluccio,  con lo sguardo di cielo del padre.

Anche questa volta Momo, era questo il diminutivo adottato subito per alleggerire  il peso di quel grosso nome  di Girolamo finalmente perpetuato nel primo dei pronipoti  del fattore, scovò nonno Guido nella vigna. Non lo vide subito perchè stava infrattato tra i filari. Fu il fruscìo di un viticchio a svelargli la sua presenza. Il nonno con la mano tesa e lieve carezzava un tralcio di vite osservandone da vicino le venature e borbottava sottovoce. Cosa dicesse non si capiva  ma il suono carezzevole della voce comunicava una dolcezza senza fine. Era proprio un vecchio strano! aperto con quegli occhi di mare su tutto il bello del mondo e, nello stesso tempo, chiuso nei suoi pensieri come in una bolla iridescente. Momo comunque, mentre lo guardava, sentiva allentarsi quella morsa che dalla sera precedente lo stringeva al collo. Sì, aveva fatto bene a venire. Nessuno, meglio di nonno Guido, era in grado di ascoltarlo e, magari, dirgli una di quelle sue rare parole capaci di passare come il miele su ogni ferita.

Era rimasto immobile a guardare quella testa bianca curva in atteggiamento d’amore contro la pianta ma un refolo di vento gli passò a un tratto tra i capelli e fu il suo gesto di riavvio a rivelare la sua presenza.

Il vecchio si girò sconfinando di sorrisi nel brillìo degli occhi prima ancora che nell’aprirsi delle labbra

“Oh Momo, chi si rivede! Ma non eri a Torino per le lezioni?

“Ciao, nonno. Ti dispiace che sono venuto a trovarti?”

“Ma che dici? Lo sai che mi fa piacere vederti. Sempre”.

“Vieni andiamo a bere qualcosa di fresco”.

Mentre lo seguiva tra i filari non poteva fare a meno di pensare con malinconico rammarico a quanto fosse diversa la sua vita sentimentale, sempre in rollìo tra alti e bassi nella sua storia con Sara, da quella del nonno. Un amore tranquillo e lungo come una giornata assolata di maggio trascorso senza affanni tra scherzi e carezze accanto alla nonna finchè lei non si era spenta in un soffio con la mano nelle sue mani. Che consiglio avrebbe potuto dargli quell’uomo senza drammi  per sorreggere le sue incertezze, raddrizzare le sue storture e riavviare quell’amore strano che si spegneva e riaccendeva continuamente come la luce di una sera di temporale! ora poi che Sara s’era intestardita a seguire quella compagnia di teatranti di provincia in una avventurosa tournèe in mille paesotti sperduti. Che Sara fosse un animale da teatro lo capiva pure lui anche se si guardava bene dal dirglielo. Con quei suoi occhi profondi e quella voce capace di trasformarsi come le onde del mare, dai sussurri più lievi alle grida laceranti, era in grado di tenere la scena anche da sola. Ma abbandonare il suo lavoro sicuro di bibliotecaria per mettersi così alla ventura su quel miserabile carro di Tespi che stava per partire gli sembrava proprio una follia pericolosa. E solo perché quel critico famoso, capitato per caso alla recita annuale della filodrammatica, s’era lasciato scappare che Sara era una  promessa sicura del teatro! Andare poi in giro, per un anno e forse più, tra squallidi alberghi di paese magari a prendere fischi da pubblici ignoranti, incapaci di comprendere la novità dei testi e la bravura degli attori! Senza contare che se a lui  avesse voluto veramente bene non avrebbe buttato così al vento il suo e il loro avvenire. A tutti quei suoi discorsi fatti alternativamente con rabbia o voce suadente e pacata e recriminazioni addolorate, Sara aveva sempre opposto il sorriso del suo amore

“Momo, ma come ti viene in mente che io mi dimentichi di te? Il nostro è un amore vero. Può resistere a tutte le lontananze. Però se tu non mi lasci andare ci sarà sempre un’ombra nella nostra vita”.

Alle sue obiezioni di difficoltà anche per il futuro per come riuscire a essere insieme moglie e madre e attrice di teatro, Sara aveva sempre opposto con inalterabile pazienza la sua capacità di soppesare bene impegni e opportunità, nonché la rete solida di nonne e zie che l’avrebbero supportata nei periodi di assenze. Soltanto nell’ultimo incontro, a pochi giorni della partenza, alle sue rinnovate e un poco infantili recriminazioni si era lasciata scappare un infastidito: “Se la pensi così, mi dispiace ma proprio non si può andare avanti”.

Non ci voleva altro per inalberare il suo orgoglio ferito.

Con un gelido “Hai proprio ragione. Buon viaggio!”, l’aveva lasciata di stucco sulla panchina e se n’era andato di botto. Per evitare che lei lo raggiungesse si era rifugiato a cellulare spento  per un pomeriggio intero nella casa al mare. Da solo. E ci aveva anche dormito. Al mattino, quando il primo raggio di sole che filtrava tra le persiane l’aveva svegliato, aveva pensato di andare dal nonno. Per fare cosa non lo sapeva neppure lui ma era sempre lì, da quel vecchio mite e un poco misterioso, che era corso fin da bambino quando le cose non quadravano. In cerca di sicurezza e anche di chiarezza. E anche ora che stavano sulla panchina della veranda a sorseggiare la menta fresca all’ombra del gelsomino quella sicurezza di un affetto incontestabile  lui la sentiva aleggiare come una farfalla lenta e soave intorno. Ma di chiarezza no, non si vedeva l’ombra. Nè su ciò che aveva fatto né sul da fare. Cosa avrebbe fatto lui della sua vita dopo la laurea ma anche ora. Medico senza frontiere come aveva sempre sognato parlandone anche con Sara? E lei in questo l’aveva sempre incoraggiato con convinzione gioiosa. E con lei come sarebbe andata? Come avrebbero gestito la loro vita sbattuti così ai due angoli opposti del mondo? Dove si soffriva e dove si sognava? Ce l’avrebbero fatta a conservare quella preziosa comunione di pensieri e di emozioni che si erano scoperti a condividere fino dall’adolescenza?

Il nonno apparentemente occupato a eliminare i gettiti secchi del gelsomino lo guardava di sottecchi, senza fare domande. Era questa la  specialità di nonno Guido. Aspettare. Aspettare che le porte si aprissero, che le bocche si schiudessero, che le domande venissero. Il silenzio però questa volta  tra loro continuava a stendersi opaco e resistente. Pesante. Una dura coperta infeltrita. Questa scura cortina Momo la percepiva nettamente mentre a testa bassa si rammaricava di essere venuto lì. Il nonno intanto continuava a ticchettare con le cesoie. A  un certo momento il suono si interruppe ed egli alzando lo sguardo si accorse che il vecchio si appoggiava con la mano alla sedia. Il viso sbiancato, la figura snella piegata ad arco sopra la spalliera.

“Nonno che cos’hai? Ti senti male?”

“Niente, Momo, è solo uno sbalzo di pressione. Va’ in camera mia e nel primo cassetto della scrivania prendi una scatola rossa e blu. Sono le pasticche che mi rimettono su”.

Di volata, senza neppure soffermarsi a farlo sedere arrivò nella camera dei nonni, aprì la scrivania, cercò e trovò la scatola. Prima che andasse via lo colpì come un raggio improvviso che abbaglia, un ritratto di donna mai vista poggiato sopra la scrivania. Ma non c’era tempo di farsi domande. Quando tornò sulla veranda il vecchio aveva già ripreso il colorito e sorrideva pacato.

“Hai avuto paura eh? Ma il medico mi ha detto che con questa pressione bassa si può campare fino a cento anni”.

Ormai le nuvole plumbee della paura si erano dissolte e si era anche placato quel rovello di pensieri che l’aveva  tormentato poco prima. Le parole ora cominciavano a rifiorire tra loro come le nuove, antiche foglie di tutte le primavere. Con le parole le domande, gli scherzi, le risate complici. Fu per questa lieta aria di amicizia che Momo si sentì quasi in dovere di  fare al nonno una domanda:

Nonno, ho visto un ritratto di donna. Chi è? Mica una tua conquista senile, vecchio lupo della prateria?”.

Lo sguardo del vecchio si fece azzurro chiaro  come un’onda battuta dal sole. Senza rispondere si alzò e sparì verso la camera. Di lì a poco tornò col ritratto tra le mani  e si sedette di fronte a Momo.

“Forse è ora che ti racconti una storia. Lontana. Antica”.

Così col lieve profumo di altri tempi si sgranò di fronte al giovane un pezzo di vita. La donna era la baronessina Elisa che aveva abitata la villa sulla collina. Elisa e il nonno si erano conosciuti sui banchi di scuola e si erano innamorati. Un amore difficile, contrastato. Figurarsi! il figlio del contadino e l’erede dei baroni. Un’erede senza eredità, a dire la verità perché mentre Elisa diventava grande, sottile e bella come un giunco nello splendore dei capelli ramati e nelle fonde inquietudini degli occhi color di palude il padre aveva creduto bene di lasciare sul tavolo da gioco quasi tutte le proprietà. Ma il sangue non è acqua e l’antica famiglia della madre dopo avere imposto una separazione da quel debosciato aveva richiamato a sé figlia e nipote. Elisa allora frequentava già l’università. Con la  nonchalance della sua origine e  con la facilità della sua intelligenza acuta. A lui era rimasta ancora legata anche se tra gli alti e bassi di una relazione quasi clandestina e increspata dai frequenti corteggiamenti che la circuivano all’interno del suo ceto. Ma quel ragazzo serio e sognatore non cessava di attirare la baronessina  nella sua sfera di onestà e verità esistenziale anche se spesso la tentazione di sfuggirgli era forte.

Una sera che si erano dati appuntamento vicino al vecchio mulino sopra il fiume Elisa arrivò come al solito in ritardo ma, contrariamente al solito, invece di buttargli le braccia  al collo ridendo e scherzando sulla regolare puntualità di Guido, si avvicinò lentamente con occhi cupi e tempestosi e, quando gli fu vicino, gli sparò sul viso

“Questa notte dobbiamo scappare”

“Scappare? Dove? Perché?”

Il dove non si sapeva ma il perché fu presto detto. Gli zii materni erano venuti a prelevare sorella e nipote per portarsele in città. Loro certamente non avrebbero minimamente permesso a Elisa di frequentare chi non era del loro ceto. Il piano della ragazza srotolato con veloce sicurezza di fronte alle scarne obiezioni di Guido era quello di nascondersi per un po’ da qualche parte,poi sposarsi, erano maggiorenni, no?  E cominciare a vivere insieme mantenendosi con quello che sarebbe capitato come lavoro. Lontano da tutte e due le famiglie. Ma insieme. Altrimenti lei sarebbe andata via da sola

“E tu , nonno  cosa hai fatto?”

Il vecchio prima di rispondere si passò più volte la mano sulla fronte

 “Io l’ho lasciata andare. Per paura. E non per me ma per lei. Come potevo toglierle tutto quello che era stato il suo mondo? E lei se ne è andata e mi ha dimenticato. Dopo un po’ si è sposata. Un signorone che l’ha portata a vivere in un palazzo ma è morta giovane, al secondo parto. Io, in un certo senso ero già morto prima. La mia vita, è vero, l’ho continuata. Ho sposato tua nonna e le ho voluto bene. Molto. Ma ero come un ramo seccato che prova ogni primavera a rifiorire e non ce la fa mai a rinverdire completamente  dalle punte all’attacco del tronco”.

Momo taceva pensando a Sara. Il vecchio, come se avesse letto nei suoi pensieri, aggiunse: ”Non è stata una scelta generosa è stata solo  una mancanza di amore. Non ho avuto il coraggio di amare e non capivo che l’amore è una freccia invincibile. Può superare in un attimo ogni distanza di luogo e di società”.

Allora, come liberato da un incubo, Momo gli rovesciò addosso tutte le sue paure e le sue ansie per la scelta di Sara. Il vecchio lo ascoltava attento e assorto in silenzio. Fu solo mentre  scendevano i primi scalini dalla veranda in giardino che aprì la bocca per dirgli:

“Non sbagliare come ho fatto io. Tu, invece, lasciala andare”.

   
  Racconti precedenti: L'Anello dell'adolescente di Ludovico Raimondi (3° classificato) e Lettera dal campo di Giuseppe Graziani (2° classificato)
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Maria Teresa Barnabei

E' nata il 14 aprile 1937 a Montorio al Vomano (Teramo), dove risiede. Laureata in Lettere Classiche, è stata docente di italiano, storia, greco e latino ed ha concluso la sua attività d’insegnante nel glorioso Liceo Classico Statale “Melchiorre Dèlfico” di Teramo. Tra le sue numerose collaborazioni, “L’Eco di S. Gabriele”, “Insieme per…” , “Il Donatore”. Giovanissima, nel 1955, vince il primo premio nel concorso nazionale indetto dall’Azione Cattolica Italiana con il saggio "La donna nel Vangelo" e il primo premio nel concorso nazionale di poesia, promosso dalla rivista “Primavera” di Alba (Cuneo). Nel 1986, con il racconto Il viaggio dell’Abate (racconto che sarà pubblicato anche in inglese, nel 1993, nell’antologia “Short stories from Abruzzo”, a cura dell’Istituto Italiano di Cultura di Dublino), viene segnalata nella sezione dedicata agli scrittori abruzzesi del rinato Premio Teramo, che si aggiudicherà due anni dopo con il racconto Annina.
Altre segnalazioni, menzioni speciali e premi vinti in tante altre città italiane, come “Il Prione” di La Spezia, l’”Eraldo Miscia” di Lanciano, il “Merate”, il “Dire” di Biella, “Una piazza, un racconto” di Napoli e via discorrendo.
Ha pubblicato per le Edizioni Tracce di Pescara, Un Paese, raccolta dove confluisce buona parte dei racconti già pubblicati negli atti dei vari Premi; Femminile Plurale (Teramo, Demian). Il suo primo romanzo è Vedi cos’è la Merica! – Dalle lettere di un emigrante (Teramo, Ricerche & Redazioni, 2009, con prefazione di Luigi Ponziani).
La nostra scrittrice, oltre a tenere conferenze, seminari e tavole rotonde sulla letteratura italiana per conto dell’Unesco, del Parco Gran Sasso-Monti della Laga, dell’ex università della terza età di Teramo e di Giulianova e per la Commissione Provinciale delle Pari Opportunità, è stata consigliere comunale a Montorio e componente del comitato di gestione dell’ex Ulss.
 

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